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    Inquinamento industriale: per la Corte di Giustizia non sono sufficienti le verifiche degli impianti italiani

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    SENTENZA DELLA CORTE (Settima Sezione) 31 marzo 2011
     
    Inadempimento di uno Stato - Ambiente - Direttiva 2008/1/CE - Prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento - Condizioni di autorizzazione degli impianti esistenti
     
    Nella causa C-50/10,
     
    avente ad oggetto il ricorso per inadempimento, ai sensi dell'art. 258 TFUE, proposto il 29 giugno 2010,
    Commissione europea, rappresentata dalla sig.ra A. Alcover San Pedro e dal sig. C. Zadra, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo,
    ricorrente,
     
    contro
    Repubblica italiana, rappresentata dalla sig.ra G. Palmieri, in qualità di agente, assistita dalla sig.ra M. Russo, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,
    convenuta,
     
    LA CORTE (Settima Sezione),
    composta dal sig. D. Šváby (relatore), presidente di sezione, dai sigg. G. Arestis e J. Malenovský, giudici,
    avvocato generale: sig. N. Jääskinen
    cancelliere: sig. A. Calot Escobar
    vista la fase scritta del procedimento,
    vista la decisione, adottata dopo aver sentito l'avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
    ha pronunciato la seguente
     
    SENTENZA
    1 Con il presente ricorso, la Commissione europea chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo adottato le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli artt. 6 e 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 15 gennaio 2008, 2008/1/CE, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento (versione codificata) (GU L 24, pag. 8; in prosieguo: la «direttiva IPPC)», ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l'aggiornamento delle prescrizioni, che gli impianti esistenti ai sensi dell'art. 2, punto 4, di tale direttiva funzionino secondo i requisiti di cui agli artt. 3, 7, 9, 10, 13, 14, lett. a) e b), e 15, n. 2, della medesima, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 5, n. l, della citata direttiva.
     
    Contesto normativo
    2 La direttiva IPPC, conformemente al suo art. 1, ha ad oggetto la prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento proveniente dalle attività industriali elencate nel suo allegato I ed è diretta a «conseguire un livello elevato di protezione dell'ambiente nel suo complesso».
    3 La direttiva IPPC ha codificato la direttiva del Consiglio 24 settembre 1996, 96/61/CE, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento (GU L 257). Conformemente all'art. 5, n. 1, di quest'ultima, gli Stati membri dovevano adottare le misure necessarie affinché le autorità competenti vigilassero, mediante autorizzazioni rilasciate a norma dei suoi artt. 6 e 8, ovvero, in modo opportuno, mediante il riesame e, se del caso, l'aggiornamento delle condizioni, che entro un massimo di otto anni successivi alla messa in applicazione di tale direttiva, e cioè entro il 30 ottobre 2007, gli impianti esistenti funzionassero secondo i requisiti di cui agli artt. 3, 7, 9, 10, 13, 14, primo e secondo trattino, nonché all'art. 15, n. 2, della medesima direttiva.
    4 Dal tredicesimo 'considerando' della direttiva IPPC risulta che le disposizioni adottate a norma della stessa in alcuni casi devono essere applicate agli impianti esistenti dopo il 30 ottobre 2007 ed in altri a decorrere dal 30 ottobre 1999.
    5 L'art. 2, punto 4, di tale direttiva definisce l'impianto esistente come «un impianto che al 30 ottobre 1999, nell'ambito della legislazione vigente anteriormente a tale data, era in funzione o era autorizzato o che abbia costituito oggetto, a giudizio dell'autorità competente, di una richiesta di autorizzazione completa, purché sia poi entrato in funzione non oltre il 30 ottobre 2000».
    6 L'art. 3 della direttiva IPPC fa riferimento agli obblighi fondamentali del gestore.
    7 L'art. 5 della direttiva IPPC, intitolato «Condizioni di autorizzazione degli impianti esistenti», al n. 1 così dispone:
    «Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli articoli 6 e 8, ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l'aggiornamento delle prescrizioni, che entro il 30 ottobre 2007 gli impianti esistenti funzionino secondo i requisiti di cui agli articoli 3, 7, 9, 10 e 13, all'articolo 14, lettere a) e b) ed all'articolo 15, paragrafo 2, fatte salve altre disposizioni comunitarie specifiche».
    8 Gli artt. 6-10, 13, 14 e 15, n. 2, della direttiva IPPC istituiscono il regime relativo al rilascio delle autorizzazioni degli impianti in grado di provocare inquinamento. Tale regime è comprensivo dei seguenti aspetti: domande di autorizzazione, approccio integrato, decisioni, condizioni dell'autorizzazione, migliori tecniche disponibili, verifica, aggiornamento e rispetto delle condizioni di autorizzazione, accesso all'informazione e partecipazione del pubblico alla procedura di autorizzazione.
    9 La direttiva IPPC è entrata in vigore il 18 febbraio 2008 conformemente al suo art. 23.
     
    Procedimento precontenzioso
    10 Nel corso di diverse riunioni del gruppo di esperti competenti in materia, svoltesi nel periodo compreso tra marzo 2005 e febbraio 2007, i servizi della Commissione hanno attirato l'attenzione degli Stati membri sulla necessità di rispettare la scadenza del termine, fissato al 30 ottobre 2007, prevista inizialmente dall'art. 5, n. 1, della direttiva 96/61, successivamente dalla medesima disposizione della direttiva IPPC, per quanto riguarda le condizioni di autorizzazione e di controllo del funzionamento degli impianti esistenti.
    11 Con lettera del 13 novembre 2007 la Commissione ha invitato tutti gli Stati membri a fornirle informazioni sul numero totale di «impianti esistenti», ai sensi dell'art. 2, punto 4, della direttiva IPPC, in ciascuno Stato, sul numero di autorizzazioni nuove, riesaminate e, ove ritenuto opportuno, aggiornate per tali impianti.
    12 Nella sua risposta del 7 e 20 febbraio 2008 la Repubblica italiana ha comunicato alcuni dati relativi a una parte degli impianti esistenti e ha informato la Commissione dell'adozione del decreto legge 30 ottobre 2007, n. 180, convertito in legge con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2007, n. 243 (GURI n. 299, del 27 dicembre 2007, pag. 3), che ha prorogato al 31 marzo 2008 il termine per l'adeguamento degli impianti esistenti alle disposizioni della direttiva IPPC e ha previsto, in caso di inadempienza delle autorità competenti, l'attivazione urgente del potere sostitutivo dello Stato.
    13 Ritenendo che la Repubblica italiana fosse venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC, la Commissione ha avviato il procedimento per inadempimento previsto dall'art. 226 CE e, in data 8 maggio 2008, ha intimato a tale Stato membro di fornirle informazioni dettagliate circa la denominazione, il settore di attività e l'ubicazione degli impianti esistenti per i quali era stata rilasciata un'autorizzazione e di quelli che continuavano a essere in funzione senza autorizzazione.
    14 Con note dell'11 e 14 luglio 2008 la Repubblica italiana ha fornito alcune informazioni relative, in particolare, al numero di impianti esistenti nonché al numero di impianti di questo tipo per i quali erano state rilasciate nuove autorizzazioni, erano state riesaminate le precedenti autorizzazioni o le autorizzazioni riesaminate erano state aggiornate.
    15 Con nota del 12 gennaio 2009 la Repubblica italiana ha trasmesso nuovi dati relativi allo stato di attuazione degli obblighi di cui all'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC, disponibili al maggio 2008, i quali sostituivano i dati già trasmessi con le note dell'11 e 14 luglio 2008.
    16 Alla luce delle informazioni trasmesse, la Commissione ha constatato che molti degli impianti esistenti erano in funzione senza essere dotati dell'autorizzazione di cui all'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC.
    17 La Commissione ha pertanto inviato un parere motivato alla Repubblica italiana il 2 febbraio 2009, invitando tale Stato membro ad adottare le misure necessarie per conformarsi a detto parere entro due mesi dal ricevimento dello stesso.
    18 Con nota del 14 aprile 2009 la Repubblica italiana ha trasmesso ulteriori informazioni. Tale nota precisava che, secondo le informazioni raccolte fino ad allora presso la metà delle autorità competenti delle Regioni italiane, che corrispondono a circa due terzi degli impianti esistenti sul territorio italiano, l'85% di tali impianti erano dotati di autorizzazioni integrate ambientali. Per un ulteriore 7% degli impianti esistenti, il rispetto degli obblighi derivanti dalla direttiva IPPC era garantito attraverso l'adeguamento delle autorizzazioni preesistenti e per il rimanente 8% degli impianti, le autorità nazionali non avevano rilevato la necessità di modificare le autorizzazioni preesistenti per garantire la loro conformità agli obblighi previsti dalla direttiva IPPC, nelle more delle procedure di rilascio delle autorizzazioni integrate ambientali.
    19 Con nota del 18 novembre 2009 la Repubblica italiana ha inviato un ulteriore aggiornamento dei dati disponibili, aggiornati al 30 ottobre 2009. Da tali dati risultava che su 5 669 impianti esistenti in esercizio, 4 465 erano dotati di autorizzazione integrata ambientale e per i rimanenti 1 204 impianti in esercizio erano in corso procedure di rilascio di autorizzazioni integrate ambientali. Si precisava che per 593 impianti (l0% del totale) le autorizzazioni preesistenti erano state riesaminate e in 246 casi aggiornate, mentre per 608 impianti (11% del totale) le autorità competenti non avevano ritenuto necessario riesaminare le autorizzazioni preesistenti per garantire la loro conformità agli obblighi previsti dalla direttiva IPPC, nelle more della conclusione delle procedure di rilascio delle autorizzazioni integrate ambientali.
    20 Ritenendo che la Repubblica italiana non avesse soddisfatto gli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso.
     
    Sul ricorso
    Argomenti delle parti
    21 La Commissione afferma che alla scadenza del termine previsto all'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC, e cioè al 30 ottobre 2007, numerosi impianti funzionavano senza essere dotati dell'autorizzazione di cui al citato art. 5 e che tale situazione persisteva allo scadere del termine previsto nel parere motivato, vale a dire al 2 aprile 2009. Invero, secondo la Commissione, dalla nota della Repubblica italiana del 14 aprile 2009 emerge che le autorità competenti non erano neppure in possesso di tutte le informazioni relative al numero di impianti in parola presenti sul territorio nazionale e alle loro attività.
    22 La Commissione ritiene inoltre che la Repubblica italiana non abbia fornito alcuna informazione dettagliata volta a dimostrare l'equivalenza tra le autorizzazioni ambientali preesistenti e le autorizzazioni integrate ambientali ai sensi della direttiva IPPC, la quale soltanto permetterebbe di assicurarsi che il funzionamento di tutti gli impianti esistenti sia disciplinato da autorizzazioni ambientali che garantiscono adeguati livelli di protezione.
    23 La Repubblica italiana ritiene di essersi conformata ai requisiti della direttiva IPPC.
    24 La Repubblica italiana giustifica la variazione dei dati comunicati adducendo che, in particolare, fino alla metà del 2009, non tutte le autorità competenti regionali avevano ancora trasmesso informazioni complete sul numero e sulle attività degli impianti esistenti sul territorio di rispettiva competenza e che la variazione del numero degli impianti esistenti era dovuta, inoltre, ai dinieghi di rilascio delle autorizzazioni, alla chiusura o alla divisione di tali impianti nonché al censimento di impianti non ancora registrati. Tuttavia, essa sottolinea che le autorità competenti disponevano delle informazioni necessarie, almeno a partire dal 30 gennaio 2008.
    25 Per quanto riguarda gli impianti esistenti sprovvisti di un'autorizzazione integrata ambientale, menzionati nelle note del 14 aprile e 18 novembre 2009, la Repubblica italiana osserva che il rilascio di una siffatta autorizzazione era in corso, e precisa che per alcuni di tali impianti le autorizzazioni preesistenti sono state riesaminate e, in alcuni casi, aggiornate, mentre per gli impianti restanti, pari a 608 al 30 ottobre 2009, le autorità competenti non hanno ritenuto necessario riesaminare le autorizzazioni preesistenti al fine di garantire il rispetto degli obblighi fondamentali derivanti dalla direttiva IPPC.
    26 La Repubblica italiana afferma che, in questi ultimi casi, le competenti autorità regionali hanno ritenuto, sulla base di una valutazione caso per caso, di non dover adottare alcun provvedimento, in quanto non vi era evidenza alcuna che detti impianti, autorizzati conformemente alle più avanzate disposizioni in materia ambientale, non fossero conformi ai criteri stabiliti dalla direttiva IPPC.
    27 A tale proposito, essa chiarisce che le motivazioni tecniche sottese alla valutazione operata da dette autorità «potranno essere illustrate solo a valle della conclusione dell'istruttoria tecnica per la definizione dell'[autorizzazione integrata ambientale] che, individuate le migliori tecniche disponibili applicabili nel caso specifico, definirà i livelli prestazionali che nel caso specifico garantiscono il rispetto della disciplina [prevista dalla direttiva] IPPC, confermandone formalmente la corrispondenza a quelli garantiti nel periodo transitorio». Il fatto che, per tali impianti, l'esercizio stesse avvenendo nel rispetto non solo delle autorizzazioni esistenti al 1999, ma anche degli ulteriori obblighi di legge successivamente introdotti discende, in particolare, anche dal regime sanzionatorio previsto da tali disposizioni di legge, che impegna i gestori a raggiungere determinate prestazioni ambientali indipendentemente dai contenuti dell'atto autorizzativo.
    28 Inoltre, la Repubblica italiana sostiene che il decreto legge n. 180/07, modificato dalla legge di conversione n. 243/2007, non può costituire un ulteriore indice dell'inadempienza agli obblighi derivanti dall'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC, in quanto il citato decreto, come modificato, ha prorogato al 31 marzo 2008 soltanto l'obbligo di dotare ogni impianto esistente di un'autorizzazione integrata ambientale.
     
    Giudizio della Corte
    29 Occorre ricordare che dall'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC risulta che la data di scadenza per rendere conformi gli impianti esistenti era fissata al 30 ottobre 2007 (v. sentenza 4 marzo 2010, causa C-258/09, Commissione/Belgio, punto 27).
    30 Orbene, dalle informazioni comunicate dalla Repubblica italiana il 14 aprile e il 18 novembre 2009 emerge che soltanto una parte delle autorizzazioni preesistenti era stata riesaminata e, ove necessario, aggiornata, mentre le autorità competenti non avevano ritenuto necessario riesaminare le autorizzazioni di 608 impianti preesistenti per garantirne la conformità alla direttiva IPPC.
    31 Nelle sue memorie, la Repubblica italiana sostiene che, nelle more della conclusione delle procedure di rilascio delle autorizzazioni integrate ambientali, e al fine di non arrecare pregiudizio alle aziende che avevano presentato tempestivamente la domanda, le autorità competenti si sono limitate a verificare l'assenza di un evidente contrasto con i requisiti della direttiva IPPC.
    32 La Repubblica italiana aggiunge che, in ogni modo, alla scadenza del termine assegnato con il parere motivato, vale a dire al 2 aprile 2009, gli impianti esistenti ancora sprovvisti di autorizzazione integrata ambientale funzionavano nel rispetto dei requisiti della direttiva IPPC.
    33 A tale proposito, va osservato che, come risulta dall'art. 1 della direttiva IPPC, tra i vari obblighi che il legislatore dell'Unione ha imposto agli Stati membri figurano quelli di cui all'art. 5, n. 1, di tale direttiva, finalizzati al conseguimento di un livello elevato di protezione dell'ambiente nel suo complesso. Pertanto, soltanto un'esecuzione piena e conforme, da parte degli Stati membri, degli obblighi ad essi incombenti in forza della citata direttiva consentirà il raggiungimento di tale obiettivo di protezione.
    34 Inoltre, occorre constatare, come ha fatto la Commissione, che il riesame delle autorizzazioni preesistenti consiste in una valutazione approfondita delle condizioni esistenti al momento del rilascio, con la conseguente possibilità di verificare la loro conformità ai requisiti specifici della direttiva IPPC e, quindi, l'eventuale necessità di un aggiornamento.
    35 Dal tenore letterale dell'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC e dalla finalità di tale disposizione risulta infatti che i requisiti relativi al funzionamento degli impianti esistenti si applicano allo stesso modo tanto in sede di esame preliminare al rilascio di un'autorizzazione integrata ambientale quanto in caso di riesame delle autorizzazioni preesistenti.
    36 Pertanto, la mera verifica delle autorizzazioni preesistenti, diretta esclusivamente a valutare l'assenza di un evidente contrasto con i requisiti della direttiva IPPC, non appare adeguata al fine di garantire il rispetto degli obblighi previsti dall'art. 5, n. 1, di tale direttiva.
    37 Ciò premesso, l'argomento della Repubblica italiana secondo il quale gli impianti esistenti rispettano gli ulteriori obblighi di legge introdotti successivamente e, pertanto, il loro funzionamento sarebbe conforme ai requisiti della direttiva IPPC, non può essere accolto. Tale verifica delle autorizzazioni preesistenti non consente infatti di accertare la conformità del funzionamento degli impianti esistenti ai requisiti della direttiva IPPC. Ciò vale a maggior ragione in quanto, come sottolineato dalla Commissione, la Repubblica italiana non ha fornito e nemmeno menzionato informazioni quali il riferimento delle procedure di riesame e l'indicazione dei motivi in base ai quali le autorizzazioni preesistenti non necessitavano di un adeguamento.
    38 Alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte, occorre considerare fondato il ricorso proposto dalla Commissione.
    39 Si deve pertanto dichiarare che la Repubblica italiana, non avendo adottato le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli artt. 6 e 8 della direttiva IPPC, ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l'aggiornamento delle prescrizioni, che gli impianti esistenti ai sensi dell'art. 2, punto 4, di tale direttiva funzionino secondo i requisiti di cui agli artt. 3, 7, 9, 10, 13, 14, lett. a) e b), e 15, n. 2, della medesima, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 5, n. 1, della citata direttiva.
     
    Sulle spese
    40 Ai sensi dell'art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha concluso in tal senso, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese.
     
    Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) dichiara e statuisce:
    1) La Repubblica italiana, non avendo adottato le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli artt. 6 e 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 15 gennaio 2008, 2008/1/CE, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento (versione codificata), ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l'aggiornamento delle prescrizioni, che gli impianti esistenti ai sensi dell'art. 2, punto 4, di tale direttiva funzionino secondo i requisiti di cui agli artt. 3, 7, 9, 10, 13, 14, lett. a) e b), e 15, n. 2, della medesima, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 5, n. 1, della citata direttiva.
    2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.
    Ultimo aggiornamento Mercoledì 08 Giugno 2011 18:55
     

    Avvocati: la conferma della Corte di Giustizia alle tariffe massime in parcella

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    SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione) 29 marzo 2011
      
    Nella causa C-565/08,
     
    avente ad oggetto il ricorso per inadempimento, ai sensi dell'art. 226 CE, proposto il 19 dicembre 2008,
    Commissione europea, rappresentata dai sigg. E. Traversa e L. Prete, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo,
    ricorrente,
     
    contro
    Repubblica italiana, rappresentata inizialmente dalla sig.ra I. Bruni, successivamente dalla sig.ra G. Palmieri, in qualità di agenti, assistite dalla sig.ra W. Ferrante, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,
    convenuta,
     
    LA CORTE (Grande Sezione),
    composta dal sig. A. Tizzano, presidente della Prima Sezione, facente funzione di presidente, dai sigg. J.N. Cunha Rodrigues, K. Lenaerts e J.-C. Bonichot, presidenti di sezione, dai sigg. A. Rosas, M. Ilešic, J. Malenovský, U. Lõhmus (relatore), E. Levits, A. Ó Caoimh, L. Bay Larsen, dalle sig.re P. Lindh e M. Berger, giudici,
    avvocato generale: sig. J. Mazák
    cancelliere: sig.ra M. Ferreira, amministratore principale
    vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 24 marzo 2010,
    sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza del 6 luglio 2010,
    ha pronunciato la seguente
     
    SENTENZA
    1 Con il suo ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di constatare che, prevedendo disposizioni che impongono agli avvocati l'obbligo di rispettare tariffe massime, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE.
     
    Contesto normativo nazionale
    2 La professione di avvocato è disciplinata in Italia dal regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore legale (GURI n. 281, del 5 dicembre 1933, pag. 5521), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 (GURI n. 24, del 30 gennaio 1934), come successivamente modificato (in prosieguo: il «regio decreto legge»). In base agli artt. 52-55 del regio decreto legge, il Consiglio nazionale forense (in prosieguo: il «CNF») è istituito presso il Ministero della Giustizia ed è costituito da avvocati eletti dai loro colleghi, in numero di uno per ciascun distretto di Corte d'appello.
    3 L'art. 57 del regio decreto legge prevede che i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità dovuti agli avvocati ed ai procuratori in materia tanto civile, penale quanto stragiudiziale sono stabiliti ogni biennio con deliberazione del CNF. Tali criteri devono essere successivamente approvati dal Ministro della Giustizia, sentito il parere del Comitato interministeriale dei prezzi e previa consultazione del Consiglio di Stato.
    4 Ai sensi dell'art. 58 del regio decreto legge, i criteri di cui all'art. 57 del medesimo decreto sono stabiliti con riferimento al valore delle controversie e al grado dell'autorità giudiziaria adita, nonché, per i giudizi penali, alla durata degli stessi. Per ogni atto o serie di atti devono essere fissati un limite massimo ed un limite minimo dell'importo degli onorari. In materia stragiudiziale occorre tenere conto dell'importanza dell'affare.
    5 L'art. 60 del regio decreto legge stabilisce che la liquidazione degli onorari è fatta dall'autorità giudiziaria sulla base dei citati criteri, tenendo conto della gravità e del numero delle questioni trattate. Tale liquidazione deve mantenersi entro i limiti massimi e minimi previamente fissati. Tuttavia, nei casi di straordinaria importanza, tenuto conto della specialità delle controversie e qualora il valore intrinseco della prestazione lo giustifichi, il giudice può oltrepassare il limite massimo. Viceversa egli può, quando la causa risulta di facile trattazione, fissare onorari in misura inferiore al limite minimo. In entrambi i casi la decisione del giudice dev'essere motivata.
    6 Ai sensi dell'art. 61, n. 1, del regio decreto legge, gli onorari praticati dagli avvocati nei confronti dei propri clienti, in materia sia giudiziale che stragiudiziale, sono determinati, salvo patto speciale, in base ai criteri di cui all'art. 57, tenuto conto della gravità e del numero delle questioni trattate. Conformemente al n. 2 del medesimo articolo, tali onorari possono essere maggiori di quelli liquidati a carico della parte condannata alle spese se la specialità della controversia o il valore della prestazione lo giustificano.
    7 L'art. 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, sugli onorari di avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile (GURI n. 172, del 23 luglio 1942), prevede che sono inderogabili gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati, a pena di nullità di qualsiasi accordo derogatorio.
    8 L'art. 13 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, sulla libera prestazione di servizi da parte degli avvocati cittadini di altri Stati membri della Comunità europea (GURI n. 42, del 12 febbraio 1982, pag. 1030), che recepisce la direttiva del Consiglio 22 marzo 1977, 77/249/CEE, intesa a facilitare l'esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati (GU L 78), estende l'obbligo di rispettare le tariffe professionali in vigore agli avvocati di altri Stati membri che svolgono in Italia attività giudiziali e stragiudiziali.
    9 I diritti e gli onorari degli avvocati sono stati successivamente disciplinati da più decreti ministeriali di cui gli ultimi tre sono il D.M. 24 novembre 1990, n. 392, il D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, e il D.M. 8 aprile 2004, n. 127.
    10 Conformemente alla deliberazione del CNF allegata al decreto ministeriale 8 aprile 2004, n. 127 (GURI n. 115, del 18 maggio 2004; in prosieguo: la «deliberazione del CNF»), le tariffe applicabili agli onorari degli avvocati si suddividono in tre capitoli, vale a dire il capitolo I, relativo alle prestazioni giudiziali in materia tanto civile, amministrativa quanto fiscale, il capitolo II, concernente le prestazioni giudiziali in materia penale, e il capitolo III, riguardante le prestazioni stragiudiziali.
    11 Per il capitolo I, l'art. 4, n. 1, della deliberazione del CNF vieta qualsiasi deroga agli onorari e diritti stabiliti per le prestazioni degli avvocati.
    12 Per quanto riguarda il capitolo II, l'art. 1, nn. 1 e 2 di suddetta deliberazione dispone che, per la determinazione dell'onorario di cui alla tabella, deve tenersi conto della natura, complessità e gravità della causa, delle contestazioni e delle imputazioni, del numero e dell'importanza delle questioni trattate e della loro rilevanza patrimoniale, della durata del procedimento e del processo, del valore della prestazione effettuata, del numero di avvocati che hanno collaborato e condiviso la responsabilità della difesa, dell'esito ottenuto, anche avuto riguardo alle conseguenze civili, nonché delle condizioni finanziarie del cliente. Per le cause che richiedono un particolare impegno, per la complessità dei fatti o per le questioni giuridiche trattate, gli onorari possono giungere fino al quadruplo dei massimi stabiliti.
    13 Per quanto concerne il capitolo III, l'art. 1, n. 3, della deliberazione del CNF sancisce che, nelle pratiche di particolare importanza, complessità e difficoltà, il limite massimo degli onorari può essere aumentato fino al doppio e quello degli onorari per le pratiche di straordinaria importanza fino al quadruplo, previo parere del consiglio dell'ordine degli avvocati competente. L'art. 9 di tale deliberazione precisa che, nell'ipotesi di manifesta sproporzione, per particolari circostanze del caso, tra la prestazione e gli onorari previsti dalla tabella, su parere del consiglio dell'ordine degli avvocati competente, i massimi possono essere maggiorati anche oltre quanto previsto dall'art. l, n. 3, della deliberazione in parola e i minimi possono essere diminuiti.
    14 Il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (GURI n. 153, del 4 luglio 2006), convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248 (GURI n. 186, dell'11 agosto 2006; in prosieguo: il «decreto Bersani») è intervenuto sulle disposizioni in materia di onorari d'avvocato. L'art. 2 del predetto decreto, intitolato «Disposizioni urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali», ai suoi nn. 1 e 2, dispone quanto segue:
    «1. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facoltà di scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali:
    a) l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti;
    (...)
    2. Sono fatte salve le disposizioni riguardanti (...) le eventuali tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti. Il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale (...)».
    15 A norma dell'art. 2233 del codice civile italiano, in generale, il compenso per un contratto di prestazione di servizi, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi in vigore, è determinato dal giudice, sentito il parere dell'associazione professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso, la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione. Ogni patto concluso dagli avvocati o i praticanti abilitati con i loro clienti che stabilisca i compensi professionali è nullo se non è redatto in forma scritta.
     
    La fase precontenziosa
    16 Con lettera di diffida del 13 luglio 2005, la Commissione ha richiamato l'attenzione delle autorità italiane su una possibile incompatibilità di talune disposizioni nazionali, relative alle attività stragiudiziali degli avvocati, con l'art. 49 CE. Le autorità italiane hanno risposto con lettera del 19 settembre 2005.
    17 In seguito, la Commissione ha completato due volte l'analisi effettuata nella lettera di diffida. In una prima lettera di diffida supplementare, datata 23 dicembre 2005, la Commissione ha considerato incompatibili con gli artt. 43 CE e 49 CE le disposizioni italiane che stabiliscono l'obbligo di rispettare tariffe imposte per le attività giudiziali e stragiudiziali degli avvocati.
    18 La Repubblica italiana ha risposto con lettere del 9 marzo, del 10 luglio nonché del 17 ottobre 2006, informando la Commissione della nuova normativa italiana applicabile in materia di onorari degli avvocati, ossia il decreto Bersani.
    19 Con una seconda lettera di diffida supplementare, datata 23 marzo 2007, la Commissione, tenendo conto di questa nuova normativa, ha integrato ulteriormente la sua posizione. La Repubblica italiana ha risposto con lettera datata 21 maggio 2007.
    20 Con lettera del 3 agosto 2007, la Commissione ha poi chiesto alle autorità italiane informazioni in merito alle modalità di rimborso delle spese sostenute dagli avvocati. La Repubblica italiana ha risposto con lettera del 28 settembre 2007.
    21 Non essendo rimasta soddisfatta da tale risposta, il 4 aprile 2008 la Commissione ha trasmesso un parere motivato alla Repubblica italiana, adducendo che le disposizioni nazionali che impongono l'obbligo per gli avvocati di rispettare tariffe massime sono incompatibili con gli artt. 43 CE e 49 CE. Tale obbligo risulterebbe, in particolare, dalle disposizioni di cui agli artt. 57 e 58 del regio decreto legge, dall'art. 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, dall'art. 13 della legge 9 febbraio 1982, n. 31, dalle pertinenti disposizioni dei decreti ministeriali 24 novembre 1990, n. 392, 5 ottobre 1994, n. 585, e 8 aprile 2004, n. 127, nonché dalle disposizioni del decreto Bersani (in prosieguo, complessivamente: le «disposizioni controverse»). Essa ha invitato tale Stato membro ad adottare, entro un termine di due mesi dal ricevimento di tale parere, le misure necessarie per adeguarvisi. La Repubblica italiana ha risposto con lettera del 9 ottobre 2008.
    22 Ritenendo che la Repubblica italiana non avesse rimediato all'infrazione addebitatale, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso.
     
    Sul ricorso
    Argomenti delle parti
    23 Con il suo ricorso la Commissione addebita alla Repubblica italiana di aver previsto, in violazione degli artt. 43 CE e 49 CE, disposizioni che impongono agli avvocati l'obbligo di rispettare tariffe massime per la determinazione dei propri onorari.
    24 Ad avviso della Commissione, detto obbligo deriva dal decreto Bersani che, pur abrogando le tariffe fisse o minime applicabili agli onorari degli avvocati, ha esplicitamente mantenuto l'obbligo di rispettare tariffe massime in nome della protezione dei consumatori. Tale interpretazione sarebbe peraltro confermata dal CNF, dal consiglio dell'ordine degli avvocati di Torino nonché dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nei rispettivi documenti ufficiali.
    25 Il fatto che questo stesso decreto abbia abolito il divieto di stabilire contrattualmente compensi dipendenti dal conseguimento degli obiettivi perseguiti, ossia il cosiddetto «patto del quota lite», non può inficiare la conclusione che il rispetto di tali tariffe massime è ancora obbligatorio in tutti i casi in cui un siffatto patto non sia stato concluso. D'altronde, durante la fase precontenziosa, le autorità italiane non avrebbero mai negato l'obbligatorietà delle tariffe massime di cui trattasi.
    26 Del pari, la Commissione sottolinea che le eccezioni previste per le tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati non escludono, ma anzi confermano, che le tariffe massime degli onorari si applicano in via generale.
    27 La Commissione sostiene che le disposizioni controverse producono l'effetto di disincentivare gli avvocati stabiliti in altri Stati membri a stabilirsi in Italia o a prestarvi temporaneamente i propri servizi e, di conseguenza, configurano restrizioni alla libertà di stabilimento ai sensi dell'art. 43 CE nonché alla libera prestazione dei servizi ai sensi dell'art. 49 CE.
    28 Infatti, essa considera che un tariffario massimo obbligatorio, che si applichi indipendentemente dalla qualità della prestazione, dal lavoro necessario per effettuarla e dai costi sostenuti per attuarla, possa rendere il mercato italiano delle prestazioni legali non attraente per i professionisti stabiliti in altri Stati membri.
    29 A giudizio della Commissione, tali restrizioni derivano, in primo luogo, dall'obbligo imposto agli avvocati di calcolare i propri onorari in base ad un tariffario estremamente complesso che genera un costo aggiuntivo, in particolare per gli avvocati stabiliti fuori dell'Italia. Nel caso in cui questi avvocati avessero utilizzato fino ad allora un diverso sistema di calcolo dei loro onorari, essi sarebbero obbligati ad abbandonarlo per adeguarsi al sistema italiano.
    30 In secondo luogo, l'esistenza di tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati impedirebbe che i servizi degli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana siano correttamente remunerati dissuadendo taluni avvocati, i quali chiedono onorari più elevati di quelli stabiliti dalle disposizioni controverse, dal prestare temporaneamente i propri servizi in Italia, ovvero dallo stabilirsi in tale Stato membro. Infatti, secondo la Commissione, il margine di guadagno massimo è fissato indipendentemente dalla qualità del servizio prestato, dall'esperienza dell'avvocato, dalla sua specializzazione, dal tempo da lui dedicato alla causa, dalla situazione economica del cliente, e, ancor più, dall'eventualità che l'avvocato sia tenuto a spostarsi per lunghi tragitti.
    31 La Commissione considera, in terzo luogo, che il sistema di tariffazione italiano pregiudichi la libertà contrattuale dell'avvocato impedendogli di fare offerte ad hoc in determinate situazioni e/o a clienti particolari. Le disposizioni controverse potrebbero dunque comportare una perdita di competitività per gli avvocati stabiliti in altri Stati membri perché esse privano gli stessi di efficaci tecniche di penetrazione nel mercato legale italiano. Di conseguenza, la Commissione ritiene che le disposizioni controverse costituiscano un ostacolo all'accesso al mercato italiano dei servizi legali per gli avvocati stabiliti in altri Stati membri.
    32 In via principale, la Repubblica italiana contesta non l'esistenza, nell'ordinamento giuridico italiano, di dette tariffe massime, bensì il carattere vincolante delle medesime, sostenendo che esistono numerose deroghe per superare tali limiti, o per volontà degli avvocati e dei loro clienti, o tramite l'intervento del giudice.
    33 Secondo tale Stato membro, il criterio principale che consente di fissare gli onorari degli avvocati risiede, a norma dell'art. 2233 del codice civile italiano, nel contratto concluso tra l'avvocato e il suo cliente, mentre il ricorso alle tariffe applicabili agli onorari degli avvocati costituisce soltanto un criterio sussidiario, utilizzabile in mancanza di compenso liberamente fissato dalle parti contrattuali nell'esercizio della loro autonomia contrattuale.
    34 Inoltre, gli onorari calcolati su base oraria sarebbero espressamente previsti al punto 10 del capitolo III della deliberazione del CNF come metodo alternativo di calcolo degli onorari in materia stragiudiziale.
    35 Del pari, in seguito all'adozione del decreto Bersani, il divieto di concludere un accordo tra cliente ed avvocato, che preveda un compenso dipendente dall'esito della controversia, sarebbe stato definitivamente abolito dall'ordinamento giuridico italiano.
    36 Per quanto riguarda le deroghe alle tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati, la Repubblica italiana sottolinea che, in tutte le cause di particolare importanza, complessità o difficoltà per le questioni giuridiche trattate, gli avvocati e i loro clienti possono convenire, senza che sia necessario alcun parere del consiglio dell'ordine degli avvocati competente, che gli onorari vengano aumentati fino al doppio dei massimi di tali tariffe o anche, in materia penale, fino al quadruplo di tali massimi.
    37 Il previo parere del consiglio dell'ordine degli avvocati competente sarebbe invece richiesto, in materia sia civile che stragiudiziale, nei casi di straordinaria importanza delle controversie, per aumentare il compenso fino al quadruplo dei massimi previsti nonché, in caso di manifesta sproporzione tra la prestazione professionale e l'onorario previsto dalle tariffe applicabili a tali onorari, per aumentare del pari gli onorari di cui trattasi anche oltre tali massimi.
    38 In subordine, la Repubblica italiana sostiene che le disposizioni controverse non contengono alcuna misura restrittiva della libertà di stabilimento o della libera prestazione dei servizi e che gli addebiti della Commissione non sono fondati.
    39 Infatti, per quanto riguarda i costi aggiuntivi, l'esistenza di una duplice normativa, ossia quella dello Stato membro d'origine e quella dello Stato membro ospitante, non potrebbe, di per sè, costituire un motivo che consenta di sostenere che le disposizioni controverse sono restrittive poiché le norme professionali in vigore nello Stato membro ospitante sarebbero applicabili agli avvocati provenienti da altri Stati membri in forza delle direttive del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 77/249 e 98/5/CE, volte a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica (GU L 77, pag. 36), indipendentemente dalle norme applicabili nello Stato membro d'origine.
    40 Per quanto attiene all'asserita riduzione dei margini di guadagno, le disposizioni controverse prevederebbero in modo dettagliato il rimborso integrale di tutte le spese di missione in base a documenti giustificativi e concederebbero inoltre un'indennità di trasferta per le ore di lavoro perse durante quest'ultima. Tali spese si aggiungerebbero ai diritti, agli onorari e alle spese generali degli avvocati e sarebbero rimborsate, in applicazione del principio di non discriminazione, tanto agli avvocati stabiliti in Italia, che devono spostarsi sul territorio nazionale, quanto agli avvocati stabiliti in altri Stati membri che devono spostarsi in Italia.
     
    Giudizio della Corte
    41 In via preliminare, va constatato come dall'insieme delle disposizioni controverse emerga che le tariffe massime applicabili agli onorari degli avvocati costituiscono norme giuridicamente vincolanti in quanto sono previste da un testo di legge.
    42 Pur supponendo che gli avvocati e i loro clienti siano, in concreto, liberi di pattuire contrattualmente il compenso degli avvocati su base oraria o a seconda dell'esito della causa, come fatto valere dalla Repubblica italiana, resta nondimeno il fatto che le tariffe massime continuano ad essere obbligatorie nell'ipotesi in cui non esista un patto tra gli avvocati e i clienti.
    43 Peraltro, la Commissione ha giustamente considerato che l'esistenza di deroghe che consentano di superare, in presenza di determinate condizioni, i limiti massimi dell'importo degli onorari portandoli al doppio o al quadruplo o addirittura oltre, conferma che le tariffe massime degli onorari si applicano in via generale.
    44 Di conseguenza, non può essere accolto l'argomento della Repubblica italiana secondo cui, nel suo ordinamento giuridico, non esiste alcun obbligo per gli avvocati di osservare tariffe massime per la determinazione dei loro onorari.
    45 Per quanto riguarda, poi, l'esistenza di restrizioni alla libertà di stabilimento nonché alla libera prestazione di servizi, di cui rispettivamente agli artt. 43 CE e 49 CE, da una giurisprudenza costante emerge che siffatte restrizioni sono costituite da misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l'esercizio di tali libertà (v., in tal senso, sentenze 15 gennaio 2002, causa C-439/99, Commissione/Italia, Racc. pag. I-305, punto 22; 5 ottobre 2004, causa C-442/02, CaixaBank France, Racc. pag. I-8961, punto 11; 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, Racc. pag. I-2941, punto 31, e 4 dicembre 2008, causa C-330/07, Jobra, Racc. pag. I-9099, punto 19).
    46 In particolare, la nozione di restrizione comprende le misure adottate da uno Stato membro che, per quanto indistintamente applicabili, pregiudichino l'accesso al mercato per gli operatori economici di altri Stati membri (v., in particolare, sentenze CaixaBank France, cit., punto 12, e 28 aprile 2009, causa C-518/06, Commissione/Italia, Racc. pag. I-3491, punto 64).
    47 Nella specie, è pacifico che le disposizioni controverse si applichino indistintamente a tutti gli avvocati che forniscono servizi sul territorio italiano.
    48 La Commissione ritiene, tuttavia, che tali disposizioni costituiscano una restrizione ai sensi degli articoli summenzionati, in quanto possono infliggere agli avvocati, stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana e che forniscono servizi in quest'ultimo Stato, costi aggiuntivi generati dall'applicazione del sistema italiano degli onorari nonché una riduzione dei margini di guadagno e dunque una perdita di competitività.
    49 A tal riguardo, giova ricordare anzitutto che una normativa di uno Stato membro non costituisce una restrizione ai sensi del Trattato CE per il solo fatto che altri Stati membri applichino regole meno severe o economicamente più vantaggiose ai prestatori di servizi simili stabiliti sul loro territorio (v. sentenza 28 aprile 2009, Commissione/Italia, cit., punto 63 e giurisprudenza ivi citata).
    50 L'esistenza di una restrizione ai sensi del Trattato non può dunque essere desunta dalla mera circostanza che gli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana devono, per il calcolo dei loro onorari per prestazioni fornite in Italia, abituarsi alle norme applicabili in tale Stato membro.
    51 Per contro, una restrizione del genere esiste, segnatamente, se detti avvocati sono privati della possibilità di penetrare nel mercato dello Stato membro ospitante in condizioni di concorrenza normali ed efficaci (v., in tal senso, sentenza CaixaBank France, cit., punti 13 e 14; 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 59, nonché 11 marzo 2010, causa C-384/08, Attanasio Group, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 45).
    52 Orbene, è giocoforza constatare che la Commissione non ha dimostrato che le disposizioni controverse abbiano un tale scopo o effetto.
    53 Infatti, essa non è riuscita a dimostrare che la normativa in discussione è concepita in modo da pregiudicare l'accesso, in condizioni di concorrenza normali ed efficaci, al mercato italiano dei servizi di cui trattasi. Va rilevato, al riguardo, che la normativa italiana sugli onorari è caratterizzata da una flessibilità che sembra permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita dagli avvocati. Così, è possibile aumentare gli onorari fino al doppio delle tariffe massime altrimenti applicabili, per cause di particolare importanza, complessità o difficoltà, o fino al quadruplo di dette tariffe per quelle che rivestono una straordinaria importanza, o anche oltre in caso di sproporzione manifesta, alla luce delle circostanze nel caso di specie, tra le prestazioni dell'avvocato e le tariffe massime previste. In diverse situazioni, inoltre, è consentito agli avvocati concludere un accordo speciale con il loro cliente al fine di fissare l'importo degli onorari.
    54 Pertanto, non avendo dimostrato che le disposizioni controverse ostacolano l'accesso degli avvocati provenienti dagli altri Stati membri al mercato italiano di cui trattasi, l'argomentazione della Commissione, diretta alla constatazione dell'esistenza di una restrizione ai sensi degli artt. 43 CE e 49 CE, non può essere accolta.
    55 Ne consegue che il ricorso dev'essere respinto.
     
    Sulle spese
    56 A norma dell'art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica italiana non ha chiesto la condanna della Commissione alle spese, si deve decidere che ciascuna parte sopporti le proprie spese.
     
    Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce:
    1) Il ricorso è respinto.
    2) La Commissione europea e la Repubblica italiana sopportano le proprie spese.
    Ultimo aggiornamento Martedì 14 Giugno 2011 15:42
     


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