I giudici nazionali siano incoraggiati al dialogo con la Corte di Giustizia dell'Unione Europea
Lunedì 18 Luglio 2016 17:05
Giorgia Motta
SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione)
5 luglio 2016 ()
«Rinvio pregiudiziale – Articolo 267 TFUE – Articolo 94 del regolamento di procedura della Corte – Contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale – Normativa nazionale che prevede la declinazione di competenza del giudice nazionale per aver espresso, nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale, un parere provvisorio nell’esposizione del contesto di fatto e di diritto – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ‑ Articolo 47, secondo comma, e articolo 48, paragrafo 1»
Nella causa C‑614/14,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Sofiyski gradski sad (Tribunale di Sofia, Bulgaria), con decisione del 15 dicembre 2014, pervenuta in cancelleria il 31 dicembre 2014, nel procedimento penale a carico di
Atanas Ognyanov
con l’intervento di:
Sofiyska gradska prokuratura,
LA CORTE (Grande Sezione),
composta da K. Lenaerts, presidente, A. Tizzano, vicepresidente, R. Silva de Lapuerta, M. Ilešič, J. L. da Cruz Vilaça, A. Arabadjiev, C. Toader e F. Biltgen, presidenti di sezione, J.‑C. Bonichot, M. Safjan, M. Berger (relatore), E. Jarašiūnas, C. G. Fernlund, C. Vajda e S. Rodin, giudici,
avvocato generale: Y. Bot
cancelliere: M. Aleksejev, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 12 gennaio 2016,
considerate le osservazioni presentate:
– per il governo dei Paesi Bassi, da M. Bulterman, C. Schillemans e M. Gijzen, in qualità di agenti;
– per la Commissione europea, da W. Bogensberger, R. Troosters e V. Soloveytchik, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 23 febbraio 2016,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura della Corte nonché dell’articolo 47, secondo comma, e dell’articolo 48, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).
Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento relativo al riconoscimento di una sentenza in materia penale e all’esecuzione, in Bulgaria, di una pena detentiva pronunciata da un giudice danese nei confronti del sig. Atanas Ognyanov.
Contesto normativo
Diritto dell’Unione
In forza dell’articolo 94 del regolamento di procedura, intitolato «Contenuto della domanda di pronuncia pregiudiziale»:
«Oltre al testo delle questioni sottoposte alla Corte in via pregiudiziale, la domanda di pronuncia pregiudiziale contiene:
a) un’illustrazione sommaria dell’oggetto della controversia nonché dei fatti rilevanti, quali accertati dal giudice del rinvio o, quanto meno, un’illustrazione delle circostanze di fatto sulle quali si basano le questioni;
b) il contenuto delle norme nazionali applicabili alla fattispecie e, se del caso, la giurisprudenza nazionale in materia;
c) l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla causa principale».
Diritto bulgaro
Dalla decisione di rinvio emerge che, a norma dell’articolo 29 del Nakazatelno‑protsesualen kodeks (codice di procedura penale; in prosieguo: il «NPK»), non può fare parte del collegio giudicante un giudice che, inter alia, può essere ritenuto parziale. In base alla giurisprudenza del Varhoven kasatsionen sad (Corte suprema di cassazione, Bulgaria), la formulazione da parte del giudice di un parere provvisorio sul merito di una causa prima di pronunciarsi in via definitiva costituisce un caso particolare di parzialità.
In caso di parzialità, il collegio giudicante è tenuto a dichiarare la propria incompetenza, il che significa, in primo luogo, che esso cessa di conoscere della causa, in secondo luogo, che la causa viene riassegnata ad altri giudici della giurisdizione interessata e, in terzo luogo, che il nuovo collegio designato riesamina la causa ex novo.
Qualora il giudice ometta di dichiarare la propria incompetenza, continui a esaminare la causa ed emetta una decisione definitiva, quest’ultima sarà viziata in quanto adottata in «violazione delle forme sostanziali». Il giudice superiore annullerà la decisione e la causa verrà riassegnata ad altro giudice ai fini di un nuovo esame.
Il giudice del rinvio precisa che la giurisprudenza bulgara accoglie un’interpretazione particolarmente restrittiva del criterio di «parzialità». A tal riguardo, rileva, in particolare, che il controllo di tale criterio viene effettuato d’ufficio e che anche l’indicazione più insignificante in merito ai fatti della causa o alla loro qualificazione giuridica comporta automaticamente un motivo di declinazione di competenza del giudice.
Dalla decisione di rinvio risulta altresì che la formulazione, da parte del giudice, di un parere provvisorio comporta non solo la declinazione della sua competenza e l’annullamento della sua decisione definitiva, ma altresì l’avvio, nei suoi confronti, di un’azione di responsabilità per illecito disciplinare. Infatti, ai sensi dei punti 2.3 e 7.4 del Kodeks za etichno povedenie (codice nazionale di deontologia), al giudice è vietato pronunciarsi pubblicamente sull’esito di una causa il cui esame gli viene affidato o formulare un parere provvisorio. Inoltre, il punto 7.3 del codice nazionale di deontologia prevede che il giudice possa esprimersi su questioni giuridiche di principio, senza riferirsi tuttavia ai fatti concreti e alla loro qualificazione giuridica.
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
Con sentenza del 28 novembre 2012, il sig. Ognyanov, di cittadinanza bulgara, veniva condannato dal Retten i Glostrup (Tribunale di Glostrup, Danimarca) ad una pena detentiva complessiva di quindici anni per omicidio e furto aggravato. Dopo aver scontato in Danimarca parte della pena detentiva, il 1° ottobre 2013, il sig. Ognyanov veniva consegnato alle autorità bulgare al fine di espiarne in Bulgaria la parte restante.
Con domanda di pronuncia pregiudiziale del 25 novembre 2014, presentata nella causa C‑554/14, Ognyanov, poi reiterata e integrata con due domande del 15 dicembre 2014, il Sofiyski gradski sad (Tribunale di Sofia, Bulgaria) ha proposto alla Corte una serie di questioni vertenti sull’interpretazione della decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea (GU 2008, L 327, pag. 27), quale modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009 (GU 2009, L 81, pag. 24).
In seguito alla presentazione di dette questioni pregiudiziali nella causa C‑554/14, Ognyanov, la Sofiyska gradska prokuratura (pubblico ministero di Sofia, Bulgaria), parte della controversia nel procedimento principale, ha chiesto, segnatamente, la declinazione di competenza del collegio del Sofiyski gradski sad (Tribunale di Sofia) incaricato dell’esame della causa, in base al rilievo che, esponendo, ai punti da 2 a 4 della domanda di pronuncia pregiudiziale, il contesto di fatto e di diritto della causa, detto giudice avrebbe espresso un parere provvisorio su questioni di fatto e di diritto, prima che ne venisse disposto il passaggio in decisione.
Il giudice del rinvio esprime dubbi circa la legittimità, alla luce del diritto dell’Unione, di una normativa nazionale, come quella in esame nel procedimento principale, che obbliga il collegio giudicante di un organo giurisdizionale bulgaro a dichiarare la propria incompetenza qualora abbia espresso, nella domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte, un parere provvisorio nell’esporre il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale.
Ciò premesso, il Sofiyski gradski sad (Tribunale di Sofia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se sia ravvisabile una violazione del diritto dell’Unione [combinato disposto dell’articolo 267, secondo comma, TFUE, dell’articolo 94 del regolamento di procedura, degli articoli 47 e 48 della Carta (...) di altre disposizioni applicabili] nel caso in cui il giudice che abbia proposto domanda di pronuncia pregiudiziale prosegua, successivamente al provvedimento di rinvio pregiudiziale, la trattazione della causa pronunciandosi sul merito senza astenersi. Il motivo di tale declinazione di competenza risiede nella formulazione, da parte del giudice del rinvio, di un parere provvisorio sul merito della causa della domanda di pronuncia pregiudiziale (considerando come dimostrato un determinato contesto di fatto e ritenendo ivi applicabile una norma giuridica specifica).
La questione pregiudiziale è proposta nell’assunto che nell’accertamento dei fatti e della normativa applicabile ai fini del rinvio pregiudiziale siano state rispettate tutte le norme procedurali a tutela del diritto delle parti di dedurre mezzi di prova e di formulare difese.
2) Nel caso in cui la prima questione sia risolta nel senso della legittimità della prosecuzione del procedimento, se sia dunque ravvisabile una violazione del diritto dell’Unione ove:
a) il giudice del rinvio riporti nella propria decisione definitiva quanto già accertato nella domanda di pronuncia pregiudiziale senza alcuna modifica e, con riferimento alle soluzioni accolte in fatto ed in diritto, neghi la produzione di nuove prove e l’audizione delle parti. In pratica, il giudice del rinvio assumerebbe nuove prove e procederebbe all’audizione delle parti solo in relazione alle questioni non ritenute accertate nella domanda di pronuncia pregiudiziale.
b) il giudice del rinvio assuma nuove prove e proceda all’audizione delle parti su tutte le questioni rilevanti, comprese le questioni sulle quali si sia già espresso nel provvedimento di rinvio pregiudiziale, pronunciandosi conclusivamente sul merito nella propria decisione definitiva, sulla base di tutte le prove assunte e sentite tutte le difese delle parti, indipendentemente dal fatto che le prove siano state assunte e le parti abbiano svolte le proprie difese anteriormente o successivamente all’emanazione del provvedimento di rinvio.
3) Qualora la prima questione sia risolta nel senso che sia compatibile con il diritto dell’Unione proseguire il procedimento, se sia parimenti compatibile la decisione del giudice a quo di non proseguire il procedimento principale, bensì di astenersi per parzialità, in quanto la prosecuzione del procedimento costituirebbe una violazione del diritto nazionale, che offre una maggiore tutela degli interessi delle parti e dell’amministrazione della giustizia, vale a dire laddove l’astensione sia motivata dal fatto che:
a) il giudice del rinvio, nel contesto della domanda di pronuncia pregiudiziale, si sia già pronunciato sul merito prima di emettere la propria decisione definitiva, circostanza legittima secondo il diritto dell’Unione ma non già secondo il diritto nazionale;
b) il giudice del rinvio si pronunci definitivamente sul merito della causa con due atti giuridici distinti e non con uno (nell’assunto che la domanda di pronuncia pregiudiziale non costituisca una pronuncia non definitiva, bensì definitiva), cosa legittima secondo il diritto dell’Unione ma non già secondo il diritto nazionale».
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione
Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, se gli articoli 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura, letti alla luce dell’articolo 47, secondo comma e dell’articolo 48, paragrafo 1, della Carta, debbano essere interpretati nel senso che ostino ad una normativa nazionale interpretata in modo da imporre al giudice del rinvio di dichiarare la propria incompetenza in merito al procedimento dinanzi ad esso pendente per aver esposto, nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale, il contesto di fatto e di diritto del procedimento stesso.
Occorre anzitutto ricordare che il procedimento di rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale nell’Unione europea il quale, instaurando un dialogo da giudice a giudice tra la Corte e i giudici degli Stati membri, mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati (v. parere 2/13, del 18 dicembre 2014, EU:C:2014:2454, punto 176 e giurisprudenza ivi citata).
Per giurisprudenza costante, il procedimento ex articolo 267 TFUE costituisce uno strumento di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi d’interpretazione del diritto dell’Unione loro necessari per risolvere la controversia che essi sono chiamati a dirimere (v. ordinanze dell’8 settembre 2011, Abdallah, C‑144/11, non pubblicata, EU:C:2011:565, punto 9 e giurisprudenza ivi citata; del 19 marzo 2015, Andre, C‑23/15, non pubblicata, EU:C:2015:194, punto 4 e giurisprudenza ivi citata, nonché sentenza del 6 ottobre 2015, Capoda Import-Export, C‑354/14, EU:C:2015:658, punto 23).
Secondo giurisprudenza parimenti consolidata, l’articolo 267 TFUE conferisce ai giudici nazionali la più ampia facoltà di adire la Corte qualora ritengano che, nell’ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, siano sorte questioni che implichino un’interpretazione o un accertamento della validità delle disposizioni del diritto dell’Unione necessarie per definire la controversia di cui sono investiti. I giudici nazionali sono d’altronde liberi di esercitare tale facoltà in qualsiasi momento da essi ritenuto opportuno (v. sentenze del 5 ottobre 2010, Elchinov, C‑173/09, EU:C:2010:581, punto 26 e giurisprudenza ivi citata, nonché dell’11 settembre 2014, A, C‑112/13, EU:C:2014:2195, punto 39 e giurisprudenza ivi citata). Infatti, la scelta del momento più opportuno per interrogare la Corte in via pregiudiziale è di loro esclusiva competenza (v. sentenze del 15 marzo 2012, Sibilio, C‑157/11, non pubblicata, EU:C:2012:148, punto 31 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 7 aprile 2016, Degano Trasporti, C‑546/14, EU:C:2016:206, punto 16).
L’esigenza di giungere ad un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che questi definisca il contesto di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi almeno l’ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate (v. ordinanze dell’8 settembre 2011, Abdallah, C‑144/11, non pubblicata, EU:C:2011:565, punto 10 e giurisprudenza ivi citata; del 19 marzo 2015, Andre, C‑23/15, non pubblicata, EU:C:2015:194, punto 5 e giurisprudenza ivi citata, nonché sentenza del 10 marzo 2016, Safe Interenvíos, C‑235/14, EU:C:2016:154, punto 114).
I requisiti concernenti il contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale figurano in modo esplicito all’articolo 94 del regolamento di procedura, che il giudice del rinvio, nell’ambito della cooperazione prevista all’articolo 267 TFUE, deve conoscere e osservare scrupolosamente (v. ordinanza del 3 luglio 2014, Talasca, C‑19/14, EU:C:2014:2049, punto 21).
Peraltro, è pacifico che le informazioni contenute nelle decisioni di rinvio servano non soltanto a consentire alla Corte di fornire risposte utili, ma anche a dare ai governi degli Stati membri nonché alle altre parti interessate la possibilità di presentare osservazioni ai sensi dell’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea e spetta a quest’ultima provvedere affinché tale possibilità resti garantita, tenuto conto del fatto che, in forza del suddetto articolo, soltanto le decisioni di rinvio vengono notificate alle parti interessate (v. ordinanza dell’8 settembre 2011, Abdallah, C‑144/11, non pubblicata, EU:C:2011:565, punto 11 e giurisprudenza ivi citata, nonché sentenza del 10 marzo 2016, Safe Interenvíos, C‑235/14, EU:C:2016:154, punto 116).
Infine, la mancata indicazione del contesto di fatto e di diritto rilevante può costituire una causa manifesta di irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale (v., in tal senso, ordinanze dell’8 settembre 2011, Abdallah, C‑144/11, non pubblicata, EU:C:2011:565, punto 12; del 4 luglio 2012, Abdel, C‑75/12, non pubblicata, EU:C:2012:412, punti 6 e 7; del 19 marzo 2014, Grimal, C‑550/13, non pubblicata, EU:C:2014:177, punto 19, nonché del 19 marzo 2015, Andre, C‑23/15, non pubblicata, EU:C:2015:194, punti 8 e 9).
Esponendo nella domanda di pronuncia pregiudiziale il contesto di fatto e di diritto del procedimento principale, un giudice del rinvio, quale il Sofiyski gradski sad (Tribunale di Sofia), non fa dunque altro che conformarsi ai requisiti dettati dagli articoli 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura.
Ciò premesso, la circostanza che un giudice del rinvio, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, illustri nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale il contesto di fatto e di diritto rilevante del procedimento principale, risponde all’esigenza di cooperazione inerente al meccanismo del rinvio pregiudiziale e, di per sé, non può violare né il diritto di adire un giudice imparziale sancito dall’articolo 47, secondo comma, della Carta, né il diritto alla presunzione di innocenza garantito dall’articolo 48, paragrafo 1, della medesima.
Nel caso di specie, dall’applicazione del combinato disposto dell’articolo 29 del NPK, quale interpretato dal Varhoven kasatsionen sad (Corte suprema di cassazione), e dai punti 2.3, 7.3 e 7.4 del codice nazionale di deontologia, si evince che l’esposizione da parte di un giudice bulgaro, nell’ambito di una domanda di pronuncia pregiudiziale, del contesto di fatto e di diritto della controversia in esame nel procedimento principale è considerata come formulazione di un parere provvisorio da parte di tale giudice, che comporta non soltanto la sua declinazione di competenza e l’annullamento della sua decisione definitiva, ma altresì l’avvio, nei suoi confronti, di un’azione di responsabilità per illecito disciplinare.
Ne consegue che una normativa nazionale, come quella in esame nel procedimento principale, comporta segnatamente il rischio che un giudice nazionale preferisca astenersi dal porre questioni pregiudiziali alla Corte per evitare o che venga declinata la sua competenza e gli vengano inflitte sanzioni disciplinari, o di proporre questioni pregiudiziali irricevibili. Di conseguenza, una normativa di tal genere lede le prerogative riconosciute ai giudici nazionali dall’articolo 267 TFUE e, pertanto, l’efficace cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali posta in essere dal meccanismo del rinvio pregiudiziale.
Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione deferita dichiarando che gli articoli 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura, alla luce dell’articolo 47, secondo comma, e dell’articolo 48, paragrafo 1, della Carta, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale interpretata in modo da imporre al giudice del rinvio di dichiarare la propria incompetenza con riguardo ad un procedimento dinanzi ad esso pendente per aver esposto, nell’ambito della propria domanda di pronuncia pregiudiziale, il contesto di fatto e di diritto del procedimento stesso.
Sulla seconda questione
Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 267 TFUE, debba essere interpretato nel senso che osti a che, in seguito alla pronuncia della sentenza in via pregiudiziale, il giudice del rinvio non apporti modifiche agli accertamenti di diritto e di fatto dallo stesso effettuati nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale o, al contrario, a che, in seguito a tale pronuncia, detto giudice proceda ad una nuova audizione delle parti nonché a nuove misure istruttorie che potrebbero indurlo a modificare quanto già accertato.
A tal riguardo, va ricordato che, per giurisprudenza costante, l’articolo 267 TFUE impone al giudice del rinvio di dare piena attuazione all’interpretazione del diritto dell’Unione data dalla Corte (v., in tal senso, sentenza del 5 aprile 2016, PFE, C‑689/13, EU:C:2016:199, punti da 38 a 40 e giurisprudenza ivi citata).
Per contro, né tale articolo né alcun’altra disposizione del diritto dell’Unione richiedono al giudice del rinvio di modificare, in seguito alla pronuncia della sentenza in via pregiudiziale, gli accertamenti di fatto e di diritto da esso effettuati nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale. Nessuna disposizione del diritto dell’Unione vieta, inoltre, a tale giudice di modificare, in seguito a tale pronuncia, le proprie valutazioni relative al contesto di fatto e di diritto rilevante nella specie.
In considerazione degli elementi richiamati supra, occorre rispondere alla seconda questione posta dichiarando che il diritto dell’Unione, segnatamente l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che non impone né vieta al giudice del rinvio di procedere, in seguito alla pronuncia della sentenza emessa in via pregiudiziale, ad una nuova audizione delle parti nonché a nuove misure istruttorie che possano indurlo a modificare gli accertamenti di fatto e di diritto da esso effettuati nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale purché tale giudice dia piena attuazione all’interpretazione del diritto dell’Unione data dalla Corte.
Sulla terza questione
Con la terza questione il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, se il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che osti a che detto giudice applichi una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, ritenuta contraria al diritto dell’Unione, in quanto tale normativa garantirebbe un livello più elevato di tutela dei diritti fondamentali delle parti.
A tal riguardo, occorre anzitutto rilevare che è inaccettabile l’assunto su cui poggia tale questione, secondo il quale la normativa nazionale oggetto del procedimento principale garantirebbe al singolo una maggiore tutela del proprio diritto di adire un giudice imparziale, ai sensi dell’articolo 47, secondo comma, della Carta. Infatti, come rilevato al punto 23 supra, la circostanza che, nella domanda di pronuncia pregiudiziale, un giudice nazionale esponga, conformemente ai requisiti derivanti dagli articoli 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura, il contesto di fatto e di diritto della controversia nel procedimento principale, di per sé, non viola tale diritto fondamentale. Di conseguenza, non si può ritenere che contribuisca a garantire la tutela di tale diritto l’obbligo di declinazione della competenza che la norma de qua impone al giudice del rinvio che ha provveduto a tale esposizione nell’ambito di un rinvio pregiudiziale.
Ciò posto, va rammentato che, secondo costante giurisprudenza, la sentenza con la quale la Corte si pronuncia in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale, per quanto concerne l’interpretazione o la validità degli atti delle istituzioni dell’Unione in questione, per la definizione della lite nel procedimento principale (v. sentenze del 20 ottobre 2011, Interedil, C‑396/09, EU:C:2011:671, punto 36 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 5 aprile 2016, PFE, C‑689/13, EU:C:2016:199, punto 38).
Si deve, inoltre, sottolineare che, in forza di consolidata giurisprudenza, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito di propria competenza, le norme del diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione nazionale contraria, senza doverne attendere la previa soppressione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v. sentenze del 20 ottobre 2011, Interedil, C‑396/09, EU:C:2011:671, punto 38 e giurisprudenza ivi citata; del 4 giugno 2015, Kernkraftwerke Lippe-Ems, C‑5/14, EU:C:2015:354, punto 32 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 5 aprile 2016, PFE, C‑689/13, EU:C:2016:199, punto 40 e giurisprudenza ivi citata).
Va infine aggiunto che l’esigenza di assicurare la piena efficacia del diritto dell’Unione include l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto interno incompatibile con il diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 19 aprile 2016, DI, C‑441/14, EU:C:2016:278, punto 33 e giurisprudenza ivi citata).
Ne consegue che, nel caso di specie, il giudice del rinvio ha l’obbligo di garantire la piena efficacia dell’articolo 267 TFUE disapplicando, ove necessario, di propria iniziativa, l’articolo 29 del NPK quale interpretato dal Varhoven kasatsionen sad (Corte suprema di cassazione), posto che tale interpretazione non è compatibile con il diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 19 aprile 2016, DI, C‑441/14, EU:C:2016:278, punto 34).
Tenuto conto delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla terza questione sollevata dichiarando che il diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che osta a che un giudice del rinvio applichi una normativa nazionale, come quella in esame nel procedimento principale, ritenuta contraria a tale diritto.
Sulle spese
Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
1) Gli articoli 267 TFUE e 94 del regolamento di procedura della Corte, alla luce dell’articolo 47, secondo comma, e dell’articolo 48, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale interpretata in modo da imporre al giudice del rinvio di dichiarare la propria incompetenza con riguardo ad un procedimento dinanzi ad esso pendente per aver esposto, nell’ambito della propria domanda di pronuncia pregiudiziale, il contesto di fatto e di diritto del procedimento stesso.
2) Il diritto dell’Unione, segnatamente l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che non impone né vieta al giudice del rinvio di procedere, in seguito alla pronuncia della sentenza emessa in via pregiudiziale, ad una nuova audizione delle parti nonché a nuove misure istruttorie che possano indurlo a modificare gli accertamenti di fatto e di diritto da esso effettuati nell’ambito della domanda di pronuncia pregiudiziale, purché tale giudice dia piena attuazione all’interpretazione del diritto dell’Unione data dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.
3) Il diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che osta a che un giudice del rinvio applichi una normativa nazionale, come quella in esame nel procedimento principale, ritenuta contraria a tale diritto.
Ultimo aggiornamento Lunedì 18 Luglio 2016 17:19
Obbligo di restituzione di aiuti comunitari ricevuti: la Corte di Giustizia ne dichiara la compatibilità con gli articoli 17 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea
Mercoledì 01 Giugno 2016 17:36
Simona Santoro
SENTENZA DELLA CORTE (Ottava Sezione)
26 maggio 2016
«Rinvio pregiudiziale – Agricoltura – Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia – Regolamenti (CE) nn. 1257/1999 e 817/2004 – Sostegno allo sviluppo rurale – Ripetizione dell’indebito – Aumento della superficie dichiarata oltre la soglia prevista nel corso del periodo di impegno quinquennale – Sostituzione dell’impegno iniziale con un nuovo impegno – Mancato rispetto da parte del beneficiario dell’obbligo di presentazione della domanda annuale di pagamento dell’aiuto – Normativa nazionale che richiede la restituzione di tutti gli aiuti versati per più anni – Principio di proporzionalità – Articoli 17 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea»
Nella causa C‑273/15,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dall’Augstākās tiesas Administratīvo lietu departaments (Corte suprema, dipartimento per il contenzioso amministrativo, Lettonia), con decisione del 3 giugno 2015, pervenuta in cancelleria l’8 giugno 2015, nel procedimento
ZS «Ezernieki»
contro
Lauku atbalsta dienests,
LA CORTE (Ottava Sezione),
composta da D. Šváby, presidente di sezione, J. Malenovský e M. Vilaras (relatore), giudici,
avvocato generale: M. Campos Sánchez-Bordona,
cancelliere: A. Calot Escobar
vista la fase scritta del procedimento,
considerate le osservazioni presentate:
– per la ZS «Ezernieki», da A. Martuzāns;
– per il governo lettone, da I. Kalniņš e G. Bambāne, in qualità di agenti;
– per la Commissione europea, da A. Sauka e J. Aquilina, in qualità di agenti,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) e che modifica ed abroga taluni regolamenti (GU 1999, L 160, pag. 80), come modificato dal regolamento (CE) n. 1783/2003 del Consiglio, del 29 settembre 2003 (GU 2003, L 270, pag. 70) (in prosieguo: il «regolamento n. 1257/1999»), del regolamento (CE) n. 817/2004 della Commissione, del 29 aprile 2004, recante disposizioni di applicazione del regolamento n. 1257/1999 (GU 2004, L 153, pag. 30, e – rettifica – in GU 2004, L 231, pag. 24), del regolamento (CE) n. 796/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, recante modalità di applicazione della condizionalità, della modulazione e del sistema integrato di gestione e di controllo di cui al regolamento (CE) n. 1782/2003 del Consiglio, del 29 settembre 2003, che stabilisce norme comuni relative ai regimi di sostegno diretto nell’ambito della politica agricola comune e istituisce taluni regimi di sostegno a favore degli agricoltori (GU 2004, L 141, pag. 18), nonché degli articoli 17 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la ZS «Ezernieki» (in prosieguo: l’«Ezernieki»), un’azienda agricola, e il Lauku atbalsta dienests (servizio di sostegno al mondo rurale, Lettonia), in merito al rimborso della totalità degli aiuti agroambientali concessile dalle autorità lettoni nel periodo di impegno quinquennale, a causa del mancato rispetto del complesso dei requisiti di concessione di detti aiuti.
Contesto normativo
Diritto dell’Unione
Il regolamento n. 1257/1999
3 Il regolamento n. 1257/1999, a termini del suo articolo 1, definisce il quadro del sostegno comunitario per uno sviluppo rurale sostenibile. Nel titolo II, capo VI, di tale regolamento, intitolato «Agroambiente e benessere degli animali», l’articolo 22 di quest’ultimo così recita:
«Il sostegno a metodi di produzione agricola finalizzati alla protezione dell’ambiente e alla conservazione dello spazio naturale (misure agroambientali) contribuisce alla realizzazione degli obiettivi delle politiche comunitarie in materia di agricoltura, ambiente e benessere degli animali da allevamento.
(…)».
4 L’articolo 23 del regolamento n. 1257/1999 così dispone:
«1. Gli agricoltori ricevono un aiuto in compenso di impegni della durata minima di cinque anni a favore dell’agroambiente o del benessere degli animali. Ove necessario, può essere fissato un periodo più lungo per particolari tipi di impegni, a causa degli effetti di questi ultimi sull’ambiente o sul benessere degli animali.
2. Gli impegni a favore dell’agroambiente e del benessere degli animali oltrepassano l’applicazione delle normali buone pratiche agricole, comprese le buone pratiche inerenti al settore zootecnico.
Essi procurano servizi non forniti da altre misure di sostegno, quali il sostegno dei mercati o le indennità compensative».
5 Ai sensi del successivo articolo 24:
«1. Il sostegno agli impegni a favore dell’agroambiente o del benessere degli animali viene concesso annualmente ed è calcolato in base ai seguenti criteri:
a) il mancato guadagno,
b) i costi aggiuntivi derivanti dall’impegno assunto e
c) la necessità di fornire un incentivo.
I costi relativi agli investimenti non sono presi in considerazione nel calcolo dell’importo annuo dell’aiuto. I costi degli investimenti non rimunerativi necessari all’adempimento di un impegno possono essere presi in considerazione nel calcolo dell’importo annuo dell’aiuto.
2. Gli importi annui massimi che possono beneficiare del sostegno comunitario figurano nell’allegato. Ove l’aiuto sia calcolato per superficie, tali importi sono basati sulla superficie dell’azienda a cui si applicano gli impegni agroambientali».
6 L’articolo 37, paragrafo 4, del regolamento medesimo così dispone:
«Gli Stati membri possono stabilire condizioni ulteriori o più restrittive per la concessione del sostegno comunitario allo sviluppo rurale, purché tali condizioni siano coerenti con gli obiettivi e con i requisiti previsti dal presente regolamento».
7 In forza dell’articolo 93, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1698/2005 del Consiglio, del 20 settembre 2005, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) (GU 2005, L 277 pag. 1), il regolamento n. 1257/1999 è abrogato con effetto dal 1° gennaio 2007, ma continua ad applicarsi alle misure approvate dalla Commissione europea anteriormente a tale data in base al regolamento stesso.
Il regolamento n. 817/2004
8 Nella sezione 11 del capo I del regolamento n. 817/2004, intitolato «Misure di sviluppo rurale», l’articolo 37 di tale regolamento afferma quanto segue:
«1. Se, in corso d’esecuzione di un impegno che costituisce la condizione per la concessione del sostegno, il beneficiario aumenta la superficie della propria azienda, gli Stati membri possono disporre l’estensione dell’impegno alla superficie aggiuntiva per il restante periodo di esecuzione, conformemente al paragrafo 2, o la sostituzione dell’impegno originario del beneficiario con un nuovo impegno, conformemente al paragrafo 3.
La suddetta sostituzione può essere prevista anche qualora il beneficiario estenda, nell’ambito della propria azienda, la superficie oggetto di impegno.
2. L’estensione di cui al paragrafo 1 può essere consentita solo alle seguenti condizioni:
a) che sia di indubbio vantaggio per la misura di cui trattasi;
b) che sia giustificata dalla natura dell’impegno, dalla durata del periodo restante e dalla dimensione della superficie aggiuntiva;
c) che non pregiudichi l’effettiva verifica del rispetto delle condizioni cui è subordinata la concessione del sostegno.
La superficie aggiuntiva di cui al primo comma, lettera b), deve essere notevolmente inferiore a quella della superficie originaria o inferiore a due ettari.
3. Il nuovo impegno di cui al paragrafo 1 si applica all’insieme della superficie in questione e le sue condizioni non sono meno rigorose di quelle dell’impegno originario».
9 Nella sezione 6 del capo II, intitolata «Domande, controlli e sanzioni», l’articolo 66 del regolamento n. 817/2004 così recita:
«1. Le domande di sostegno allo sviluppo rurale in relazione alla superficie o agli animali, da inoltrarsi indipendentemente dalle domande di aiuto a norma dell’articolo 6 del regolamento (CE) n. 2419/2001, [della Commissione, dell’11 dicembre 2001, che fissa le modalità di applicazione del sistema integrato di gestione e di controllo relativo a taluni regimi di aiuti comunitari istituito dal regolamento (CEE) n. 3508/92 del Consiglio (GU 2001, L 327, pag. 11)] devono indicare l’insieme delle superfici e degli animali dell’azienda rilevanti ai fini del controllo delle domande presentate nell’ambito della misura in questione, compresi quelli per i quali non viene chiesto alcun sostegno.
2. Se una misura di sostegno allo sviluppo rurale è correlata alla superficie, essa si riferisce a parcelle singolarmente identificate. Durante il periodo di esecuzione di un impegno, le parcelle oggetto di sostegno non possono essere permutate, tranne nei casi specificamente contemplati nel documento di programmazione.
3. Qualora la domanda di pagamento sia abbinata alla domanda di aiuto “per superficie” nel sistema di controllo integrato, lo Stato membro assicura che le parcelle per le quali sia stato chiesto un sostegno allo sviluppo rurale siano dichiarate separatamente.
4. Per l’identificazione delle superfici e degli animali si procede conformemente agli articoli 18 e 20 del regolamento (CE) n. 1782/2003.
5. Nel caso di un aiuto pluriennale, i pagamenti successivi a quello del primo anno di presentazione della domanda sono effettuati in base ad una domanda annuale di pagamento dell’aiuto, tranne qualora lo Stato membro preveda un procedimento idoneo per un’efficace verifica annuale a norma dell’articolo 67, paragrafo 1, del presente regolamento».
10 L’articolo 67 del regolamento n. 817/2004 così dispone:
«1. I controlli relativi alle domande iniziali di ammissione al regime e alle successive domande di pagamento sono eseguiti in modo da assicurare l’efficace verifica del rispetto delle condizioni per la concessione degli aiuti.
A seconda della tipologia della misura di sostegno, gli Stati membri definiscono i metodi e gli strumenti necessari all’esecuzione dei controlli, nonché le persone da controllare.
Ove risulti opportuno, gli Stati membri si avvalgono del sistema integrato di gestione e di controllo istituito dal regolamento (CE) n. 1782/2003.
2. I controlli si effettuano tramite controlli amministrativi e controlli in loco».
11 A termini del successivo articolo 71, paragrafo 2:
«In caso di pagamento indebito, il beneficiario della misura di sviluppo rurale ha l’obbligo di restituire il relativo importo conformemente all’articolo 49 del regolamento (CE) n. 2419/2001».
12 In forza dell’articolo 64 del regolamento (CE) n. 1974/2006 della Commissione, del 15 dicembre 2006, recante disposizioni di applicazione del regolamento (CE) n. 1698/2005 del Consiglio sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) (GU 2006, L 368 pag.15), il regolamento n. 817/2004 è abrogato con effetto dal 1° gennaio 2007, ma continua ad applicarsi alle misure approvate prima di tale data ai sensi del regolamento n. 1257/1999.
Il regolamento n. 796/2004
13 Il regolamento n. 796/2004 ha abrogato il regolamento n. 2419/2001. In forza del regolamento n. 796/2004, quest’ultimo si applica alle domande di aiuto presentate in riferimento alle campagne di commercializzazione o ai periodi di erogazione dei premi a decorrere dal 1° gennaio 2005 e i riferimenti al regolamento n. 2419/2001 si intendono fatti al regolamento n. 796/2004.
14 Poiché, secondo la tavola di concordanza che figura nell’allegato III al regolamento n. 796/2004, l’articolo 49 del regolamento n. 2419/2001 corrisponde all’articolo 73 del regolamento n. 796/2004, il riferimento all’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004 riguarda d’ora in poi l’articolo 73 del regolamento n. 796/2004.
15 L’articolo 73 del regolamento n. 796/2004 così recita:
«1. In caso di pagamento indebito, l’agricoltore ha l’obbligo di restituire il relativo importo, maggiorato di un interesse calcolato a norma del paragrafo 3.
(…)
3. Gli interessi decorrono dalla data di notificazione all’agricoltore dell’obbligo di restituzione sino alla data del rimborso o detrazione degli importi dovuti.
Il tasso d’interesse applicabile è calcolato applicando le disposizioni di diritto nazionale, ma non può in alcun caso essere inferiore al tasso d’interesse previsto dalla legislazione nazionale per la ripetizione dell’indebito.
4. L’obbligo di restituzione di cui al paragrafo 1 non si applica nel caso in cui il pagamento sia stato effettuato per errore dell’autorità competente medesima o di un’altra autorità e se l’errore non era normalmente rilevabile dall’agricoltore.
Tuttavia, qualora l’errore riguardi elementi determinanti per il calcolo del pagamento, il primo comma si applica solo se la decisione di recupero non è stata comunicata entro 12 mesi dalla data del pagamento.
5. L’obbligo di restituzione di cui al paragrafo 1 non si applica se il periodo intercorso tra la data di pagamento dell’aiuto e quella in cui l’autorità competente ha notificato per la prima volta al beneficiario il carattere indebito del pagamento effettuato è superiore a dieci anni.
Tuttavia, il periodo di cui al comma precedente è ridotto a quattro anni se il beneficiario ha agito in buona fede.
(…)».
Il diritto lettone
16 L’articolo 53 del Ministru kabineta noteikumi n. 221 «Kārtība, kādā tiek piešķirts valsts un Eiropas Savienibas atbalsts lauksaimniecībai un lauku attīstibai» (decreto n. 221 del Consiglio dei ministri, relativo alla procedura per la concessione degli aiuti dello Stato e dell’Unione europea alle aziende agricole e allo sviluppo rurale), del 21 marzo 2006, in vigore fino al 28 aprile 2007 (in prosieguo: il «decreto n. 221»), stabilisce che quando un agricoltore richiede i pagamenti previsti in detto decreto per un aiuto agroambientale, gli impegni entrano in vigore dal giorno in cui questi presenta la domanda presso il servizio di sostegno al mondo rurale. L’articolo 24 dello stesso decreto prevede che l’agricoltore presenti al servizio di sostegno al mondo rurale, entro il 9 giugno dell’anno in corso, la domanda di pagamento di un aiuto agroambientale, unitamente alla mappa dei terreni agricoli rilasciata da tale servizio, da cui risulti la superficie utile della parcella agricola utilizzata.
17 L’articolo 55 del decreto n. 221 stabilisce che, laddove la domanda di aiuto agroambientale implichi un’estensione degli impegni, saranno adottati nuovi impegni della durata di cinque anni. Se, durante l’intero periodo di vigenza degli impegni, la loro estensione risulta aumentata fino al 20%, senza peraltro superare i due ettari, rispetto agli impegni originari, si estendono gli impegni esistenti.
18 Ai sensi del successivo articolo 58, l’agricoltore, chiedendo il pagamento dell’aiuto agroambientale, si impegna a presentare annualmente al servizio di sostegno al mondo rurale, per l’intero periodo quinquennale, una domanda di aiuto relativa alle misure dichiarate, nonché a non ridurre la superficie indicata nell’impegno e a non modificarne la localizzazione.
19 Il 31 marzo 2010 è entrato in vigore il Ministru kabineta noteikumi n. 295 «Noteikumi par valsts un Eiropas Savienības lauku attīstības atbalsta piešķiršanu, administrēšanu un uzraudzību vides un lauku ainavas uzlabošanai» (decreto n. 295 del Consiglio dei ministri, relativo alla concessione, alla gestione e al controllo degli aiuti dello Stato e dell’Unione europea allo sviluppo rurale, finalizzati al miglioramento dell’ambiente e del paesaggio rurale), del 23 marzo 2010, in vigore fino al 20 aprile 2015 (in prosieguo: il «decreto n. 295»). Tale decreto, nonché il decreto n. 221, si applicano alla misura «agroambientale» attuata conformemente al regolamento n. 1257/1999. In base all’articolo 74 del decreto n. 295, «gli impegni relativi alla superficie o agli animali nell’ambito dell’attività prevista all’articolo 3 proseguono fino al termine del periodo d’impegno a norma del decreto n. 1002 del Consiglio dei ministri, del 30 novembre 2004, recante modalità di attuazione del documento di programma “Piano di sviluppo rurale della Lettonia per la realizzazione del programma di sviluppo rurale 2004-2006”».
20 L’articolo 76 del decreto n. 295 stabilisce che il richiedente, quando chiede l’aiuto agroambientale, deve presentare annualmente, per il periodo di impegno quinquennale, una domanda al servizio di sostegno al mondo rurale. Egli non ha diritto a modificare la localizzazione della superficie oggetto degli impegni né à ridurre tale superficie o il numero degli animali.
21 Il successivo articolo 84 prevede che, se gli impegni cessano per mancata presentazione della domanda annuale di concessione dell’aiuto, per modifica della localizzazione della superficie oggetto degli impegni, per riduzione di tale superficie o per omissione della dichiarazione relativa alla superficie oggetto degli impegni ai fini dell’aiuto, il beneficiario dell’aiuto dovrà restituire la somma percepita per la superficie di cui trattasi. In caso di riduzione della superficie oggetto degli impegni nelle misure subordinate menzionate in detto decreto, il tasso medio del pagamento dell’aiuto dell’anno corrispondente viene applicato alla parte di superficie ridotta oggetto degli impegni, dividendo l’importo dell’aiuto percepito nell’ambito della misura subordinata di cui trattasi per la superficie oggetto dell’impegno.
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
22 Nel 2005 la Ezernieki dichiarava 10,20 ettari di terreni agricoli ai fini dell’ottenimento di un aiuto allo sviluppo dell’agricoltura biologica nell’ambito della misura agroambientale prevista dal regolamento n. 1257/1999. Nel 2006, ai fini del conseguimento del medesimo aiuto, essa dichiarava 2,30 ettari in più di superficie, ossia 12,50 ettari. Tale aumento ha comportato un nuovo periodo di impegno quinquennale. Nel 2010 la ricorrente presentava domanda di pagamento per superficie. Essa non presentava, invece, alcuna domanda diretta a ottenere l’aiuto agroambientale, ritenendo terminato il periodo di impegno quinquennale.
23 Il 9 agosto 2011 il servizio di sostegno al mondo rurale adottava una decisione che imponeva alla Ezernieki di restituire la totalità dell’aiuto agroambientale versato per la somma di 3 390,04 lats lettoni (LVL) (circa EUR 4 800). Tale decisione si basava sul fatto che, avendo dichiarato nel 2006 una superficie maggiore ai fini dell’aiuto agroambientale, si doveva ritenere che l’impegno iniziale fosse stato sostituito da un nuovo impegno nel periodo 2006-2010. Orbene, la ricorrente, non avendo chiesto il versamento di detto aiuto nel 2010, aveva posto fine al periodo di impegno, con conseguente obbligo di restituzione degli aiuti già percepiti.
24 La Ezernieki proponeva quindi ricorso diretto all’annullamento di detta decisione dinanzi all’administratīvā rajona tiesa (Tribunale amministrativo distrettuale, Lettonia), che lo ha accoglieva.
25 Adita in appello dal servizio di sostegno al mondo rurale, l’Administratīvā apgabaltiesa (Corte amministrativa regionale, Lettonia) respingeva il ricorso della ricorrente nel procedimento principale. Detto giudice rilevava infatti, da un lato, che l’aumento della superficie dichiarata ai fini dell’aiuto, pari a 2,30 ettari nel 2006, aveva comportato per la Ezernieki nuovi impegni quinquennali estesi a tutta la superficie, conformemente all’articolo 55 del decreto n. 221. Il giudice medesimo dichiarava, dall’altro, che dall’omessa presentazione, nel 2010, della domanda annuale di concessione dell’aiuto era derivata la cessazione degli impegni, con conseguente obbligo di restituzione degli aiuti percepiti per la superficie di cui trattasi.
26 Avverso la sentenza emessa dall’Administratīvā apgabaltiesa (Corte amministrativa regionale) la Ezernieki proponeva quindi ricorso per cassazione dinanzi al giudice del rinvio.
27 Il giudice del rinvio nutre dubbi sulla conformità al diritto dell’Unione dell’obbligo di restituzione degli aiuti percepiti, quale imposto dalla normativa nazionale nel procedimento principale. A suo avviso, in sostanza, l’obbligo del beneficiario di restituire la totalità degli aiuti percepiti potrebbe risultare sproporzionato, tenuto conto del fatto che questi ha rispettato gli impegni sottoscritti riguardo alla maggior parte della superficie e ha semplicemente omesso, in maniera non intenzionale, di dichiarare la superficie modificata. Il giudice medesimo sottolinea che la controversia sottoposta al suo esame presenta le seguenti particolarità, vale a dire: la superficie è stata aumentata a partire dal secondo anno degli impegni iniziali, l’aumento eccede il limite consentito di 2 ettari solo per 0,3 ettari, e, per quanto concerne la superficie di 10,20 ettari inizialmente dichiarata, gli impegni sono stati rispettati nel corso del periodo quinquennale.
28 Ritenendo che la soluzione della controversia principale dipenda dall’interpretazione dei regolamenti nn. 1257/1999, 817/2004 e 796/2004, nonché degli articoli 17 e 52 della Carta, l’Augstākās tiesas Administratīvo lietu departaments (Corte Suprema, sezione per il contenzioso amministrativo, Lettonia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se sia compatibile con la finalità dei regolamenti nn. 1257/1999 e 817/2004 e con il principio di proporzionalità l’applicazione delle conseguenze giuridiche previste dall’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004 in relazione a un aiuto agroambientale concesso per una parte di una superficie inizialmente dichiarata rispetto alla quale sono state soddisfatte per cinque anni le condizioni previste per la sua concessione.
2) Se l’articolo 17 della Carta, in combinato disposto con l’articolo 52 della stessa, debba essere interpretato nel senso che sia compatibile con tali disposizioni l’applicazione delle conseguenze giuridiche previste dall’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004 in relazione a un aiuto agroambientale concesso per una parte di una superficie rispetto alla quale siano stati soddisfatti, per cinque anni, i requisiti per la sua concessione.
3) Se l’articolo 52 della Carta debba essere interpretato nel senso che consenta di derogare all’applicazione delle conseguenze giuridiche rese obbligatorie da un regolamento e dalle disposizioni adottate da uno Stato membro ai sensi di detto regolamento, qualora, nel caso, sussistano circostanze particolari nel contesto delle quali la limitazione di cui trattasi deve considerarsi sproporzionata.
4) Se, in considerazione della finalità dei regolamenti nn. 1257/1999 e 817/2004 e dei limiti imposti da tali regolamenti al margine di discrezionalità degli Stati membri, sia consentito al giudice di merito di non applicare in tutta la sua portata l’articolo 84 del decreto n. 295, relativo alla restituzione degli aiuti, qualora la sua applicazione, in circostanze particolari, risulti in contrasto con il principio di proporzionalità come interpretato nell’ordinamento giuridico dello Stato membro».
Sulle questioni pregiudiziali
29 Con le sue quattro questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se, in considerazione dell’obiettivo dei regolamenti nn.1257/1999 e 817/2004, del principio di proporzionalità e degli articoli 17 e 52 della Carta, l’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004 debba essere interpretato nel senso che esso osti a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che preveda l’obbligo, per il beneficiario di un aiuto concesso a fronte dell’assunzione di impegni agroambientali pluriennali, di restituire integralmente l’aiuto già erogato, a causa dell’omessa presentazione di una domanda annuale di pagamento di tale aiuto in relazione all’ultimo anno del periodo quinquennale di impegno, qualora, da un lato, tale periodo quinquennale ne abbia sostituito uno precedente in conseguenza dell’aumento della superficie dell’azienda e, dall’altro, detto beneficiario non abbia cessato di adempiere i propri obblighi relativi all’utilizzo della superficie dichiarata prima di tale aumento.
30 Occorre ricordare, in limine, che gli articoli da 22 a 24 del regolamento n. 1257/1999 definiscono i presupposti generali per l’assegnazione del sostegno accordato ai metodi di produzione agricola finalizzati, in particolare, alla conservazione dello spazio naturale. Da tali disposizioni risulta che gli aiuti agroambientali sono caratterizzati dall’impegno quinquennale, assunto dagli agricoltori interessati, a praticare un’agricoltura rispettosa dell’ambiente. In cambio degli impegni agroambientali aventi una durata minima di cinque anni, l’aiuto è assegnato annualmente dagli Stati in base al mancato guadagno o ai costi aggiuntivi derivanti dall’impegno assunto (sentenze del 4 giugno 2009, JK Otsa Talu, C‑241/07, EU:C:2009:337, punto 36; del 24 maggio 2012, Hehenberger, C‑188/11, EU:C:2012:312, punto 30, e del 7 febbraio 2013, Pusts, C‑454/11, EU:C:2013:64, punto 30).
31 L’articolo 66, paragrafo 5, del regolamento n. 817/2004 stabilisce inoltre che, nel caso di un aiuto pluriennale, i pagamenti successivi a quello del primo anno di presentazione della domanda sono effettuati in base ad una domanda annuale di pagamento dell’aiuto, tranne qualora lo Stato membro preveda un procedimento idoneo per un’efficace verifica annuale a norma dell’articolo 67, paragrafo 1, del medesimo regolamento. Da detto articolo 66, paragrafo 5, risulta che, eccettuata l’esistenza di tale procedimento nazionale, agli agricoltori che non introducano la domanda annuale di pagamento non viene erogato alcun pagamento. La presentazione di tale domanda annuale costituisce così una condizione di ammissibilità al beneficio degli aiuti agroambientali basati su detti articoli da 22 a 24 (sentenza del 7 febbraio 2013, Pusts, C‑454/11, EU:C:2013:64, punto 32).
32 L’importanza della presentazione di una domanda annuale di pagamento degli aiuti agroambientali è del pari sottolineata all’articolo 67, paragrafo 1, del regolamento n. 817/2004, il quale dispone, con riferimento al sistema di controllo del sostegno pluriennale ai metodi di produzione agroambientali, che i controlli delle domande iniziali di adesione a un regime e delle successive domande di pagamento sono effettuati in modo tale da garantire l’efficace verifica dell’osservanza delle condizioni richieste per la concessione dei sostegni. Il deposito di tale domanda annuale permette così di verificare l’osservanza degli impegni agroambientali sottoscritti. L’ente erogatore, basandosi su tale domanda annuale, è in grado di verificare efficacemente ogni anno se tali impegni, relativi a vari anni, siano continuativamente rispettati e, all’occorrenza, procedere al versamento degli aiuti (sentenza del 7 febbraio 2013, Pusts, C‑454/11, EU:C:2013:64, punto 33).
33 Inoltre, l’articolo 37, paragrafi 1 e 2, del regolamento n. 817/2004 dispone che, qualora, in corso d’esecuzione di un impegno che costituisce la condizione per la concessione del sostegno, il beneficiario degli aiuti agroambientali aumenti la superficie della propria azienda di due ettari rispetto alla superficie iniziale, si procede alla sostituzione dell’impegno originario di detto beneficiario con un nuovo impegno quinquennale. L’articolo 37, paragrafo 3, di detto regolamento prevede che il nuovo impegno si applichi all’insieme della superficie in questione e che le sue condizioni non siano meno rigorose di quelle dell’impegno originario.
34 Ne consegue che la normativa nazionale in esame nel procedimento principale, richiedendo, da un lato, per effetto di uno dei requisiti di ammissibilità alla concessione degli aiuti agroambientali, che il candidato agli aiuti stessi sia soggetto, per tutto il periodo di impegno quinquennale, all’obbligo di presentazione di domanda annuale di pagamento, e prevedendo, dall’altro, che, in caso di aumento sostanziale della superficie dell’azienda in misura superiore a due ettari rispetto alla superficie oggetto dell’impegno originario, inizi a decorrere un nuovo periodo di impegno quinquennale, è compatibile con le disposizioni del diritto dell’Unione summenzionate.
35 Nel procedimento principale è pacifico che il beneficiario non abbia presentato la domanda di aiuto relativa all’ultimo anno del periodo di impegno quinquennale, il quale è cominciato a decorrere dall’aumento della superficie che superava di due ettari la superficie iniziale. È pur vero che quest’ultimo soddisfaceva tutte le condizioni di concessione dell’aiuto per quanto concerne la superficie di 10,20 ettari inizialmente dichiarata.
36 Tuttavia, occorre ricordare che, per quanto riguarda gli aiuti agroambientali caratterizzati da un impegno pluriennale, i requisiti per la concessione degli aiuti devono essere rispettati per tutto il periodo dell’impegno per il quale detti aiuti sono stati concessi (sentenze del 24 maggio 2012, Hehenberger, C‑188/11, EU:C:2012:312, punto 34, e del 7 febbraio 2013, Pusts, C‑454/11, EU:C:2013:64, punto 35).
37 Pertanto, laddove uno di detti requisiti di concessione del sostegno agroambientale, quale il deposito di una domanda annuale di pagamento dell’aiuto, richiesto dalla normativa nazionale oggetto del procedimento principale, dovesse risultare non adempiuto, non fosse che per una sola volta, nel corso di tutta la durata del progetto agroambientale per la quale il beneficiario degli stessi aiuti si sia impegnato, questi non possono essere concessi (sentenza del 7 febbraio 2013, Pusts, C‑454/11, EU:C:2013:64, punto 35).
38 Orbene, come risulta dall’articolo 37, paragrafo 3, del regolamento n. 817/2004, a seguito dell’aumento sostanziale della superficie dell’azienda di cui trattasi e dell’inizio di un nuovo periodo di impegno quinquennale, il beneficiario è tenuto, per tutto detto periodo, al rispetto del complesso degli obblighi da esso derivanti, e ciò per la totalità della superficie aumentata per cinque anni.
39 Inoltre, occorre sottolineare che il rispetto dei requisiti relativi alla concessione degli aiuti agroambientali resta di esclusiva responsabilità del richiedente l’aiuto. Contrariamente a quanto fatto valere dalla ricorrente nel procedimento principale, dai regolamenti nn. 1257/1999 e 817/2004 non risulta un obbligo di informazione da parte delle autorità competenti riguardo al suo obbligo di presentazione della domanda di aiuto per l’ultimo anno del suo periodo di impegno.
40 Ciò detto, il rispetto solo parziale, da parte del beneficiario di un aiuto concesso in cambio dell’assunzione dei suoi impegni, dei requisiti relativi alla concessione dell’aiuto in esame non può giustificare il fatto che quest’ultimo continui ad essere versato.
41 Come risulta dall’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004, il quale rinvia all’articolo 49 del regolamento n. 2419/2001, sostituito dall’articolo 73 del regolamento n. 796/2004, in caso di esclusione dal beneficio degli aiuti agroambientali per effetto del mancato rispetto dei requisiti di concessione di tali aiuti, il beneficiario degli aiuti stessi ha l’obbligo di restituire tutti gli importi già erogati relativi alle domande respinte (sentenze del 24 maggio 2012, Hehenberger, C‑188/11, EU:C:2012:312, punto 36, e del 7 febbraio 2013, Pusts, C‑454/11, EU:C:2013:64, punto 37).
42 L’obiettivo dei regolamenti nn. 1257/1999 e 817/2004, il principio di proporzionalità nonché gli articoli 17 e 52 della Carta non consentono di rimettere in discussione tale interpretazione dell’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004.
43 Infatti, anzitutto, come risulta dai punti da 30 a 33 supra, l’obiettivo dei regolamenti nn. 1257/1999 e 817/2004 consiste nella tutela dell’ambiente. La struttura generale del sistema introdotto da detti articoli si basa sull’effettiva verifica dell’osservanza degli impegni sottoscritti per la concessione degli aiuti agroambientali e sull’attuazione continuata di misure agroambientali su tutta la superficie dichiarata, e ciò per tutta la durata del periodo di impegno quinquennale.
44 L’obbligo di restituzione degli aiuti percepiti da un beneficiario, quale la ricorrente nel procedimento principale, che non rispetti il complesso dei requisiti relativi alla concessione di tali aiuti concorre alla realizzazione di detto obiettivo.
45 Occorre, poi, sottolineare che i pagamenti annuali di aiuti non possono essere considerati definitivi, in quanto gli aiuti versati possono essere restituiti dal beneficiario in caso di mancato rispetto da parte di quest’ultimo dell’insieme delle condizioni del loro versamento per tutto il periodo quinquennale, e ciò per l’intera superficie dichiarata (v., in tal senso, sentenze del 24 maggio 2012, Hehenberger, C‑188/11, EU:C:2012:312, punto 34, nonché del 7 febbraio 2013, Pusts, C‑454/11, EU:C:2013:64, punti 36 e 37).
46 Non si può quindi obiettare che l’obbligo di restituzione della totalità degli aiuti versati in caso di mancata osservanza del complesso dei requisiti per la loro concessione sia sproporzionato rispetto all’obiettivo perseguito, in quanto il beneficiario avrebbe rispettato gli impegni sottoscritti riguardo alla superficie inizialmente dichiarata. Infatti, come risulta dal punto 41 supra, la mancata osservanza di tali requisiti rende ingiustificati e privi di fondamento giuridico la concessione e il mantenimento del beneficio degli aiuti nella loro totalità.
47 Infine, si deve rilevare che l’obbligo di restituzione di un aiuto indebitamente erogato a causa dell’inosservanza di una condizione di ammissibilità di quest’ultimo non può essere assimilato a una violazione del diritto di proprietà, riconosciuto all’articolo 17 della Carta.
48 Infatti, dal testo dell’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004, in forza del quale gli aiuti controversi sono stati versati alla ricorrente nel procedimento principale, risulta che quest’ultima è tenuta a restituirli in caso di mancato rispetto delle condizioni cui tale versamento era soggetto (v., in tal senso, sentenze del 24 maggio 2012, Hehenberger, C‑188/11, EU:C:2012:312, punto 34, nonché del 7 febbraio 2013, Pusts, C‑454/11, EU:C:2013:64, punti 36 e 37).
49 Ciò considerato, un beneficiario che abbia l’obbligo di restituire gli aiuti indebitamente percepiti, quale mera conseguenza della mancata osservanza dei requisiti relativi al loro versamento nella specie, non può avvalersi della tutela conferita dall’articolo 17 della Carta.
50 Poiché, nel caso di specie, non si tratta di una limitazione all’esercizio del diritto di proprietà riconosciuto dalla Carta, non occorre analizzare l’obbligo di restituzione dei summenzionati aiuti a norma dell’articolo 52 della Carta.
51 In tale contesto, l’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004, alla luce dell’obiettivo dei regolamenti nn. 1257/1999 e 817/2004, del principio di proporzionalità nonché del diritto di proprietà sancito dalla Carta, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta alle disposizioni del diritto lettone in esame nel procedimento principale, che obbligano il beneficiario di quest’ultimo procedimento a restituire tutti gli importi degli aiuti agroambientali indebitamente versatigli.
52 Resta cionondimeno il fatto che il giudice del rinvio, con la quarta questione, si chiede se sia possibile non applicare la normativa nazionale oggetto del procedimento principale, adottata nel rispetto del diritto dell’Unione, laddove la sua applicazione risulti contraria al principio di proporzionalità, quale interpretato nell’ordinamento giuridico nazionale.
53 Va rilevato, in proposito, che, in base al principio del primato del diritto dell’Unione, è inammissibile che norme di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, possano menomare l’unità e l’efficacia del diritto dell’Unione (sentenze del 17 dicembre 1970, Internationale Handelsgesellschaft, 11/70, EU:C:1970:114, punto 3; del 13 dicembre 1979, Hauer, 44/79, EU:C:1979:290, punto 14, nonché del 15 gennaio 2013, Križan e a., C‑416/10, EU:C:2013:8, punto 70).
54 In considerazione dell’interpretazione accolta supra al punto 46 in ordine alla conformità con il diritto dell’Unione e, in particolare, con il principio di proporzionalità dell’obbligo di restituzione di tutti gli aiuti agroambientali da parte della ricorrente nel procedimento principale, il giudice del rinvio non può escludere l’applicazione delle conseguenze giuridiche previste dalla normativa nazionale in esame nel procedimento principale adottata nel rispetto del diritto dell’Unione.
55 Una deroga all’applicazione delle disposizioni conformi al diritto dell’Unione non può nemmeno essere ammessa sul fondamento della nozione di «equità» cui il giudice del rinvio fa altresì riferimento.
56 Occorre rilevare, in proposito, che, secondo costante giurisprudenza, fatti salvi casi particolari espressamente previsti dal legislatore dell’Unione, il diritto dell’Unione ignora un principio giuridico generale secondo il quale una norma vigente del diritto dell’Unione possa essere disapplicata da un’autorità nazionale qualora tale norma implichi, per l’interessato, un rigore che il legislatore dell’Unione avrebbe manifestamente cercato di evitare se avesse tenuto presente tale ipotesi nel momento di adozione della norma stessa (sentenza del 26 ottobre 2006, Koninklijke Coöperatie Cosun, C‑248/04, EU:C:2006:666, punto 63 e giurisprudenza ivi citata). L’equità non consente, dunque, di derogare all’applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione al di fuori dei casi previsti dalla normativa dell’Unione o nell’ipotesi in cui la normativa stessa sia dichiarata invalida (sentenza del 26 ottobre 2006, Koninklijke Coöperatie Cosun, C‑248/04, EU:C:2006:666, punto 64 e giurisprudenza ivi citata).
57 Dall’insieme dei suesposti rilievi risulta che occorre rispondere alle questioni sottoposte dichiarando che l’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento n. 817/2004, in considerazione dell’obiettivo dei regolamenti nn.1257/1999 e 817/2004, del principio di proporzionalità e degli articoli 17 e 52 della Carta, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che preveda l’obbligo, per il beneficiario di un aiuto concesso in cambio dell’assunzione di impegni agroambientali pluriennali, di restituire integralmente l’aiuto già erogato, per effetto dell’omessa presentazione di una domanda annuale di pagamento di tale aiuto in relazione all’ultimo anno del periodo di impegno quinquennale, qualora, da un lato, tale periodo quinquennale ne abbia sostituito uno precedente in conseguenza dell’aumento della superficie della sua azienda e, dall’altro, detto beneficiario non abbia cessato di adempiere i propri obblighi relativi all’utilizzo della superficie dichiarata prima di tale aumento.
Sulle spese
58 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Ottava Sezione) dichiara:
L’articolo 71, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 817/2004 della Commissione, del 29 aprile 2004, recante disposizioni di applicazione del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG), in considerazione dell’obiettivo del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) e che modifica ed abroga taluni regolamenti, come modificato dal regolamento (CE) n. 1783/2003 del Consiglio, del 29 settembre 2003, e del regolamento n. 817/2004, del principio di proporzionalità e degli articoli 17 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che preveda l’obbligo, per il beneficiario di un aiuto concesso in cambio dell’assunzione di impegni agroambientali pluriennali, di restituire integralmente l’aiuto già erogato, per effetto dell’omessa presentazione di una domanda annuale di pagamento di tale aiuto in relazione all’ultimo anno del periodo di impegno quinquennale, qualora, da un lato, tale periodo quinquennale ne abbia sostituito uno precedente in conseguenza dell’aumento della superficie della sua azienda e, dall’altro, detto beneficiario non abbia cessato di adempiere i propri obblighi relativi all’utilizzo della superficie dichiarata prima di tale aumento.
Firme
Ultimo aggiornamento Martedì 14 Giugno 2016 10:15
La libertà di stabilimento degli studenti all'interno dello "spazio europeo" secondo l'Adunanza Plenaria numero 1 del 2015.
Sabato 13 Giugno 2015 16:05
Giuditta Riggi
N. 00001/2015REG.PROV.COLL.
N. 00024/2014 REG.RIC.A.P.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 24 di A.P. del 2014, proposto da: Universita' degli Studi di Messina, in persona del legale rappresentante p.t., per legge rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata presso la sede della stessa, in Roma, via de’ Portoghesi, 12,
contro
Raffaele Cuffaro e Salvatore Pinzarrone, costituitisi in giudizio, rappresentati e difesi dall'avv. Girolamo Rubino ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv. Fabrizio Paoletti, in Roma, viale M.llo Pilsudsky, 118,
e con l'intervento di
ad opponendum: MAFFEI Ivana, VASILE Alessandra, ALBERTI Luca, LATINO Francesca, IZZO Alessia e MISTRETTA Pietro, rappresentati e difesi dall'avv. Umberto Cantelli ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv. Delia Santi, in Roma, via S. Tommaso d’Aquino, 47,
per la riforma
della sentenza breve del T.A.R. SICILIA - SEZ. STACCATA di CATANIA - SEZIONE III n. 02037/2012, resa tra le parti, concernente trasferimento studenti da atenei stranieri, a seguito di rimessione all'adunanza plenaria con ordinanza n.454/2014 del consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati, come proposto innanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana;
Vista l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n. 689/2013, di reiezione della domanda cautelare di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata proposta dall’Amministrazione appellante;
Vista l’Ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n. 454/2014, di deferimento dell’appello all’Adunanza Plenaria;
Visto l’atto di costituzione in giudizio, in questa fase, degli appellati;
Visto l’atto di intervento ad opponendum, in questa fase, di Ivana Maffei ed altri;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti tutti della causa;
Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2014, il Cons. Salvatore Cacace;
Uditi per le parti, alla stessa udienza, l’avvocato Marco Stigliano Messuti dello Stato per l’appellante, l’avv. Girolamo Rubino per gli appellati e l’avv. Umberto Cantelli per gli intervenienti;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. - Gli odierni appellati, iscritti nell’anno accademico 2011/2012 al I anno di studi della Facoltà di Medicina dell’Università di Timisoara ( Romania ), presentavano alla Università degli Studi di Messina istanza per il trasferimento presso questa Università con iscrizione al II anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia per l’anno accademico 2012/2013.
Con delibera del Consiglio di Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia in data 12 settembre 2012 l’Università degli Studi di Messina ha ritenuto dette domande non valutabili, con la motivazione che gli studenti, “provenendo da Università straniere, non hanno superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in Medicina e Chirurgia, requisito essenziale previsto dal Manifesto degli studi”.
Gli interessati impugnavano i provvedimenti di diniego di trasferimento innanzi al
TAR per la Sicilia - sezione staccata di Catania, che, con la sentenza indicata in epigrafe, accoglieva il ricorso, annullando gli atti impugnati, “con riguardo al dedotto omesso preavviso di rigetto … nonché al lamentato difetto di istruttoria, laddove … in assenza di alcuna disposizione, anche interna, l’Amministrazione ha tout court rigettato la domanda di trasferimento dei ricorrenti, senza la previa valutazione dei crediti dagli stessi acquisiti presso l’Università straniera, necessari per l’eventuale iscrizione richiesta” ( pagg. 2 – 3 sent. ).
All’ésito della decisione del T.A.R. gli studenti, previa rinuncia alla prosecuzione dei loro studi presso l’università straniera di provenienza, hanno ottenuto l’iscrizione presso l’Università degli Studi di Messina, con la convalida di una parte delle attività formative e dei relativi esami superati.
Avverso tale sentenza l’Università degli Studi di Messina ha poi proposto appello innanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, contestando, in sostanza, il presupposto logico, posto a base della sentenza di primo grado, secondo cui “né l’art. 4 della L. 264/99 né il bando prevedono disposizioni in ordine all’ipotesi del trasferimento di studenti universitari da un Ateneo straniero ad uno nazionale” ( pag. 2 app. ).
Resistevano all’appello innanzi al C.G.A.R.S. gli originarii ricorrenti, insistendo per la reiezione del gravame.
Nella camera di consiglio del 25 luglio 2013 il C.G.A.R.S. respingeva – con ordinanza n. 689/2013 – la domanda cautelare proposta dall’Amministrazione appellante.
Successivamente, all’ésito del passaggio in decisione della causa all’udienza collegiale del 7 maggio 2014, il C.G.A.R.S. ha ritenuto, con Ordinanza n. 454/2014, che la problematica cui la controversia inerisce, “relativa alla precisa individuazione dei presupposti richiesti nell’ordinamento vigente per il trasferimento di studenti iscritti in università straniere a corsi di laurea dell’area medico-chirurgica, anche in considerazione di contrastanti pronunce giurisprudenziali, vada rimessa alla Adunanza Plenaria ex art. 99. comma 1 c.p.a.” ( pag. 8 Ord. ).
Più in particolare, il C.G.A.R.S., rappresentati gli opposti orientamenti giurisprudenziali sul tema, ha poi esposto i profili che lo conducono a ritenere di condividere la tesi favorevole all’accoglimento dell’istanza di trasferimento di cui si tratta, così sintetizzando, dopo ampia ed esaustiva analisi, la disciplina, cui la materia deve ritenersi esposta:
“A) Non esiste un diritto degli studenti iscritti ad una università straniera ad essere trasferiti in una università italiana (come non esiste tale diritto per coloro che fossero iscritti in una università italiana). E ciò quali che siano i corsi di studio oggetto delle relative aspirazioni.
B) Per quanto riguarda gli studenti dei corsi di laurea delle classi per le quali l’ordinamento italiano prevede un numero limitato di accessi (e in particolare per quelli dell’area medico-chirurgica), il trasferimento da altre sedi deve considerarsi regolato dalle medesime norme, sia che il trasferimento sia richiesto da studenti iscritti in università italiane, sia che esso lo sia da studenti iscritti in università straniere, dal momento che le norme relative agli accessi – e quindi alle immatricolazioni – non hanno riferimento ad altri studenti che a quelli appunto che aspirano ad accedere, per la prima volta, alla formazione universitaria.
C) Limiti al trasferimento degli studenti dell’area medico-chirurgica sono costituiti dalla oggettiva disponibilità nella sede di accoglienza di posti per la coorte alla quale lo studente trasferito dovrebbe essere aggregato, in base alla programmazione nazionale vigente per l’anno di riferimento, e dalle speciali norme eventualmente legittimamente adottate dalle sedi – in via regolamentare generale – in virtù della autonomia loro riconosciuta” ( pagg. 34 – 35 Ord. ).
Conclusivamente, ad avviso del Collegio rimettente, “l’interesse ad un trasferimento da università straniera ad una università italiana, benché non perseguibile in virtù di una disciplina primaria (oggi inesistente), non appare in contrasto (in mancanza anche di norme secondarie espresse) con i principi e dell’ordinamento comunitario e di quello interno. Il riconoscimento di segmenti di formazione conseguiti all’estero non appare infatti in alcuna misura precluso da principi, normative e prassi vigenti, come deve osservarsi, oltretutto, in considerazione di quanto già avviene con riferimento alle discipline Erasmus, per le quali le singole università sono pacificamente legittimate dall’ordinamento vigente (comunitario ed italiano) a stipulare (anche per i corsi dell’area medico-chirurgica) convenzioni in virtù delle quali – attraverso una valutazione in concreto ex ante (idoneità di programmi, docenti, modalità di accertamento del profitto) – esse riconoscono ai loro studenti, segmenti di formazione (attuata presso università straniere), che rifluiscono (con pieno effetto ai fini del titolo finale) sul contenuto della formazione che porta al conseguimento del titolo finale” ( pagg. 35 – 36 Ord. ).
Si sono costituiti per resistere anche in questa sede gli appellati, che, con successiva memoria, premesse eccezioni di inammissibilità e di improcedibilità dell’appello sotto varii profili, insistono per l’infondatezza dello stesso.
Memoria ha pure prodotto l’appellante, reiterando le tesi di gravame incentrate sul combinato disposto degli artt. 1 e 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264, che a suo avviso “contempla l’obbligo di concorso sia per le iscrizioni al primo anno del corso di laurea in medicina e chirurgia ovvero odontoiatria e protesi dentaria, che per gli anni successivi” ( pag. 2 mem. ), sottolineando altresì “la totale compatibilità con il diritto dell’Unione Europea” di tale previsione.
Hanno proposto inoltre atto di intervento ad opponendum alcuni studenti di atenei comunitarii pubblici della Romania, che, vistesi respingere domande di trasferimento presso l’Università degli Studi di Messina analoghe a quelle che hanno dato luogo al presente giudizio, hanno proposto ricorsi in sede giurisdizionale ( accolti dallo stesso T.A.R. Catania con diverse sentenze, di cui solo alcune sarebbero state appellate), sul cui ésito prospettano la “scontata influenza della decisione” di questa Adunanza Plenaria; donde, affermano, la sussistenza del loro “interesse ad intervenire”.
All’udienza del 19 novembre 2014 la causa è stata chiamata e trattenuta in decisione.
2. - Preliminarmente, deve essere dichiarato inammissibile l’intervento ad opponendum dispiegato dagli studenti, che, adducendo di essere destinatarii di provvedimenti analoghi a quelli oggetto del presente giudizio, hanno dedotto un interesse al mantenimento dell’annullamento di questi, come pronunciato dal T.A.R.
Invero, l’intervento ad opponendum svolto in grado di appello avverso l’impugnazione diretta contro la sentenza che ha accolto il ricorso di primo grado, la cui finalità è appunto quella di contrastare le ragioni dell’Amministrazione ricorrente in appello, va correttamente qualificato come intervento ad adiuvandum degli originarii ricorrenti, per il quale la giurisprudenza richiede la titolarità di una posizione giuridica dipendente da quella da questi dedotta in giudizio.
Non essendo dunque sufficiente a supportare un siffatto intervento in giudizio la semplice titolarità di un interesse di fatto ( suscettibile invece di fondare il mero intervento ad opponendum “proprio” e cioè quello svolto a sostegno dell’Amministrazione resistente in primo grado ) e non essendo gli odierni opponenti titolari di una posizione giuridica in qualche modo dipendente da quella degli appellati, è dunque da escludersi per essi la possibilità di intervenire in causa in via litisconsortile, proponendo una domanda, che di fatto si configura, peraltro, come autonoma e parallela ( se non addirittura contrassegnata da un potenziale conflitto con gli originarii ricorrenti ) a quella proposta da questi ultimi, in quanto volta a tutelare una loro propria posizione giuridica attinta da provvedimenti analoghi a quelli per i quali qui si controverte.
3. - Sempre in via preliminare, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità ed improcedibilità dell’appello sollevate dai resistenti.
Esse si rivelano tutte infondate.
3.1 - Quanto, anzitutto, alla dedotta “acquiescenza prestata dall’Università di Messina alla sentenza del T.A.R. Catania”, che gli appellati pretendono di ricavare dal “riconoscimento delle materie” da essi sostenute all’estero ( come effettuato dall’Università ai fini dell’iscrizione conseguita all’accoglimento del ricorso di primo grado ), che costituirebbe a loro avviso “espressione di un potere discrezionale concretamente e deliberatamente esercitato”, ricordato ch’è pacifico che la spontanea esecuzione della pronuncia di primo grado non si configura come comportamento idoneo ad escludere l'ammissibilità della relativa impugnazione ( Cons. St., III, 21 giugno 2012, n. 3679 ) giacché l'eventuale accoglimento di questa è idoneo a travolgere i nuovi atti adottati dall'Amministrazione in esecuzione della sentenza di primo grado che verrebbero comunque meno con effetto retroattivo perdendo ab initio il loro fondamento giuridico ex art. 336 c.p.c. ( Cons. St., III, 18 giugno 2012, n. 3550; da ultimo, Cons. St., III, 1 agosto 2014, n. 4103 ), nella fattispecie il nuovo atto adottato dall’Amministrazione ( di riconoscimento delle frequenze conseguite in altri Atenei e degli esami ivi sostenuti ) non costituisce espressione di nuove, autonome, scelte discrezionali dell’Amministrazione stessa, ma mera esecuzione del dictum del Giudice di primo grado ( che ha posto a fondamento del disposto annullamento degli atti impugnati la mancata “previa valutazione dei crediti” acquisiti dai ricorrenti presso l’Università straniera ), in quanto l’Università, con la delibera del Consiglio di Corso di laurea in Medicina e Chirurgia assunta nella adunanza del 15 marzo 2013, peraltro assunta espressamente dando atto di “discutere in ordine ai provvedimenti … al fine di dare ottemperanza … alla Sentenza n. 3037/2012 del Tar Sicilia, sez. 3° CT” e di “operare la comparazione dei programmi degli esami sostenuti da ciascuno dei ricorrenti” in adempimento di quanto disposto dalla Autorità Giudiziaria ( v. verbale della apposita Commissione in data 7 marzo 2013 ), non ha fatto altro che procedere al riconoscimento dei crediti di cui all’art. 23 del Regolamento Didattico d’Ateneo, che sono appunto “acquisiti in relazione ad attività di studio e ad esami sostenuti presso università straniere” ( comma 2 dell’art. 23, cit. ); sì che il riconoscimento degli esami sostenuti, effettuato previa comparazione dei programmi relativi dell’Ateneo di provenienza con i programmi del piano di studi dell’Università di Messina, non rappresenta nulla di più del riconoscimento di crediti ( v. anche art. 5, comma 4, del D.M. 22 ottobre 2004, n. 270 ) dovuto in esecuzione della sentenza di primo grado, che ha appunto annullato gli atti impugnati facendo conseguentemente “obbligo all’Università di rideterminarsi, ponendo a fondamento di ogni ulteriore decisione la congruità dei crediti maturati dai ricorrenti presso l’Ateneo straniero” ( pag. 3 sent. ).
Né, per finire sul punto, la qualificazione degli atti posti in essere dall’Università successivamente alla sentenza di primo grado in termini di incompatibilità con la volontà di avvalersi dell’impugnazione ( e dunque in termini di acquiescenza alla sentenza stessa, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c. ) può affidarsi, come pretenderebbero gli appellati, alla valutazione di un mero funzionario dell’Università ( v. nota prot. n. 34014 del 19 giugno 2013 versata in atti ), le cui personali considerazioni ( aventi rilevanza esclusivamente interna, dal momento che interni all’Amministrazione ne sono i destinatarii ) circa l’opportunità di ricorrere in appello avverso la sentenza T.A.R. n. 3037/2012 e l’idoneità degli atti adottati “a prestare acquiescenza” alla stessa non sono certo in grado di denotare in maniera precisa ed univoca il proposito dell’Amministrazione, che può esprimersi sulla materia controversa solo attraverso atti compiuti dal Rettore e dal Consiglio di Corso di Laurea (atti nella fattispecie del tutto insussistenti), di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia.
3.2 - Quanto alla eccezione di improcedibilità dell’appello per effetto dell’asserito intervenuto superamento dei provvedimenti di diniego di iscrizione oggetto del giudizio a seguito dei “successivi giudizi positivi ottenuti con riferimento ai vari esami sostenuti” e dunque della dimostrazione così asseritamente data dagli appellati circa la “propria idoneità alla frequenza del corso di laurea in medicina e chirurgia”, anch’essa si rivela infondata.
Ed invero non è possibile ritenere che il favorevole esito di alcuni esami del corso di studi, cui s’è avuto accesso in relazione al favorevole esito del giudizio di primo grado instaurato contro il diniego di iscrizione motivato con il mancato superamento del test di accesso previsto per i corsi di laurea ad accesso limitato, possa ritenersi assorbente del mancato possesso di quel requisito di ammissione (su tale qualificazione v. l’art. 4, comma 2, della legge 2 agosto 1999, n. 264); questione, questa, chiaramente rilevante nel presente giudizio solo nella misura in cui da esso effettivamente dipenda, come qui dedotto dall’appellante, l’ammissione anche a seguito di trasferimento.
In realtà, l’interesse alla decisione dell’appello dell’Amministrazione avverso la sentenza di annullamento di un diniego di iscrizione fondato sulla mancanza di un requisito di ammissione permane fin quando sia in corso la procedura, sull’ammissione alla quale ( o, meglio, sulla rinnovata attività dell’Amministrazione di ammissione alla quale ) il provvedimento giudiziale valido ed efficace abbia avuto carattere decisivo e condizionante.
Occorre poi puntualizzare che non è invocabile nella fattispecie la possibilità di sanatoria introdotta dall’art. 4, comma 2-bis, della legge n. 168/2005, sia perché essa deve ritenersi ammessa soltanto per le varie ipotesi di procedimenti finalizzati alla verifica della idoneità dei partecipanti allo svolgimento di una professione il cui esercizio risulti regolamentato nell'ordinamento interno ma non riservato ad un numero chiuso di professionisti mentre va esclusa per le selezioni di stampo concorsuale per il conferimento di posti a numero limitato, sia perché il superamento del test di cui si tratta costituisce indubbiamente, come già detto, un requisito di ammissione ( essendo qui controverso soltanto se esso sia richiesto anche per le ipotesi di trasferimento da altra università con richiesta di iscrizione ad anni successivi al primo ) e non certo una “abilitazione” od un “titolo”, il cui conseguimento costituisce appunto indefettibile presupposto per l’applicazione della disposizione richiamata, all’applicazione della quale non può darsi comunque in ogni caso luogo quando il ricorso tenda a contestare una esclusione per mancanza dei requisiti ( Cons. St., VI, 15 febbraio 2012, n. 769 ).
D’altra parte, l’art. 4, comma 2-bis, cit., riguardante, come s’è detto, gli esami per il conseguimento di una abilitazione professionale, ha natura eccezionale e non è suscettibile di applicazione analogica ( Cons. St., VI, 21 maggio 2013, n. 2727 ).
In ogni caso, tale disposizione ha disposto la salvezza degli effetti di una nuova valutazione amministrativa, anche se effettuata d'ufficio o a seguito di un provvedimento giurisdizionale non definitivo, mentre in tema di ammissione ai corsi di laurea di cui si tratta vi è una fase procedimentale ( quella riguardante l'ammissione ), che non può ritenersi in alcun modo validamente surrogata dal successivo percorso di studi dello studente in ipotesi privo del requisito; studente che peraltro conserva l'interesse alla decisione sul proprio ricorso, perché solo una sentenza definitiva di accoglimento di per sé consente di salvaguardare gli effetti degli atti amministrativi emessi in esecuzione della sentenza favorevole di primo grado, destinati in quanto tali ad essere travolti dalla pronuncia d’appello che definisca il giudizio nel senso della reiezione del suo ricorso originario.
3.3 – Parimenti infondata è l’ulteriore eccezione di improcedibilità dell’appello basata sull’intervenuto accoglimento, nelle more del giudizio di appello, del ricorso straordinario al Capo dello Stato a suo tempo proposto dagli odierni appellati avverso la graduatoria della procedura di ammissione al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia bandito dall’Università di Palermo per l’anno accademico 2011/2012; il che, secondo gli stessi, varrebbe a concretizzare quel “diritto all’iscrizione all’università italiana”, la cui mancanza è in sostanza alla base degli atti di diniego oggetto del giudizio, nonché dell’appello proposto dall’Università degli Studi di Messina.
Ritiene in proposito il Collegio che, pur in presenza del sopravvenuto provvedimento dell’Università degli Studi di Palermo di invito agli interessati a presentare domanda di immatricolazione o comunque di passaggio al corso di laurea in medicina e chirurgia di quella Università per effetto dell’accoglimento del ricorso straordinario proposto avverso la graduatoria del concorso per la ammissione a quel corso di laurea per l’anno accademico 2011/2012, il Giudice amministrativo non può sovrapporre la propria valutazione a quella riferibile esclusivamente ai poteri dell’Amministrazione, sì da poter ritenere oggi sussistente in capo agli odierni appellati quel requisito ( il superamento della prova di ammissione di cui si tratta in una Università del territorio nazionale ), la cui mancanza ( da essi mai contestata ) è posta a base degli atti di diniego qui controversi, da essi conseguentemente impugnati sotto il profilo secondo cui l’assenza di tale requisito non rileverebbe in senso ostativo nei loro riguardi, dal momento che l’onere di superamento del test d’ingresso sussisterebbe solo per l’accesso al primo anno di corso e non anche per il trasferimento da essi richiesto.
Non avendo peraltro gli appellati proposto, in relazione a detta sopravvenienza, motivi aggiunti ex art. 104, comma 3, c.p.a. ( nella misura in cui si possa predicare il possesso ex tunc, per effetto del predetto accoglimento del ricorso straordinario, del requisito del superamento della prova di ammissione ), la stessa può risultare loro utile solo ai fini di una domanda di riesame, da parte dell’Università degli Studi di Messina, delle sue precedenti, qui contestate, determinazioni.
4. – Si può passare, ora, all’esame del mérito dell’appello, alla luce della compiuta ed efficace ricostruzione del quadro fattuale e giuridico operata dall’Ordinanza di rimessione, che si incentra sulla questione “se possa essere accolta la richiesta di quegli studenti che – da iscritti in corsi di laurea dell’area medico-chirurgica presso università straniere – hanno chiesto il trasferimento, con riconoscimento delle carriere e la iscrizione ad anni di corso successivi al primo, presso università italiane; e ciò tenendo presente che essi non si erano sottoposti al previsto test di accesso o che, pur avendolo affrontato conseguendo (come nel caso che ci occupa) il punteggio minimo richiesto per l’idoneità, non si erano comunque collocati in posizione utile per ottenere l’accesso ad una università italiana” (pagg. 7 – 8 Ord.).
4.1 - Questo Consiglio ha più volte ribadito ( da ultimo, sez. VI, 22 aprile 2014, n. 2028 e 30 maggio 2014, n. 2829 ) che è legittima l'esclusione da un qualsiasi anno di corso degli studenti di università estere, che non superino la prova selettiva di primo accesso, eludendo con corsi di studio avviati all'estero la normativa nazionale ( v. anche Cons. Stato, sez.VI, 15 ottobre 2013, n. 5015; 24 maggio 2013, n. 2866 e 10 aprile 2012, n. 2063 ).
Secondo tale orientamento la disciplina recante la programmazione a livello nazionale degli "accessi" non farebbe distinzioni fra il primo anno di corso e gli anni successivi ( art. 1, comma 1, e 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264, in rapporto alle previsioni del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270, recante il regolamento sull'autonomia didattica degli atenei ); di conseguenza, il rilascio di nulla osta al trasferimento da atenei stranieri e l’iscrizione agli anni di corso successivi al primo richiederebbero comunque il previo superamento della prova nazionale di ammissione prevista dall’art. 4 citato ( ai fini, appunto, della “ammissione” ), sia per l’immatricolazione al primo anno accademico, sia, come dedotto appunto dall’Università odierna appellante, per l’iscrizione ad anni successivi in conseguenza del trasferimento.
4.2 – Tale conclusione, di legittimità dei dinieghi adottati nei casi in cui si tratti di trasferimento da ateneo straniero senza previo superamento dei tests d’accesso in Italia, deve essere, ad avviso del Collegio, sottoposta ad un’attenta rimeditazione, sulla base delle attente osservazioni attinenti all’interpretazione logico-letterale dell’anzidetta normativa di riferimento formulate dall’Ordinanza di rimessione all’esame.
4.3 - Ed invero, sul piano puramente letterale e sistematico valga rilevare:
- a livello di normazione primaria e secondaria, le uniche disposizioni in materia di trasferimenti si rinvengono ai commi 8 e 9 dell’art. 3 del D.M. 16 marzo 2007 in materia di “Determinazione delle classi di laurea magistrale”, che, senz’alcun riferimento a requisiti per l’ammissione, disciplinano il riconoscimento dei crediti già maturati dallo studente ( “8. Relativamente al trasferimento degli studenti da un corso di laurea ad un altro, ovvero da un'università ad un'altra, i regolamenti didattici assicurano il riconoscimento del maggior numero possibile dei crediti già maturati dallo studente, secondo criteri e modalità previsti dal regolamento didattico del corso di laurea di destinazione, anche ricorrendo eventualmente a colloqui per la verifica delle conoscenze effettivamente possedute. Il mancato riconoscimento di crediti deve essere adeguatamente motivato. 9. Esclusivamente nel caso in cui il trasferimento dello studente sia effettuato tra corsi di laurea appartenenti alla medesima classe, la quota di crediti relativi al medesimo settore scientifico-disciplinare direttamente riconosciuti allo studente non può essere inferiore al 50% di quelli già maturati. Nel caso in cui il corso di provenienza sia svolto in modalità a distanza, la quota minima del 50% è riconosciuta solo se il corso di provenienza risulta accreditato ai sensi del regolamento ministeriale di cui all'art. 2, comma 148, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito dalla legge 24 novembre 2006, n. 286” ).
- per quanto concerne più da vicino la fattispecie all’esame, l’obbligo, per gli studenti provenienti da Università straniere, del “superamento del test di ammissione in Italia secondo le modalità stabilite dal MIUR” è recato, nella parte concernente i “trasferimenti”, nel Manifesto degli Studi dell’Università di Messina per l’anno accademico 2012 – 2013 approvato dal Senato Accademico, che tuttavia il T.A.R. ha ritenuto, con statuizione non impugnata da nessuna delle parti in causa e dunque passata in giudicato, “atto di natura informativa, privo di rilevanza giuridica per i fini di cui al ricorso” ( pag. 2 sent. );
- mentre, come s’è visto, con specifico riguardo ai trasferimenti nessuno specifico requisito di ammissione è previsto, l’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264 subordina l’ammissione ai corsi i cui accessi sono programmati a livello nazionale ( art. 1 ) o dalle singole università ( art. 2 ) al “previo superamento di apposite prove di cultura generale, sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore, e di accertamento della predisposizione per le discipline oggetto dei corsi medesimi”;
- sebbene la norma non riferisca espressamente la locuzione “ammissione” al solo “primo accoglimento dell’aspirante nel sistema universitario” ( per usare l’efficace espressione dell’Ordinanza di rimessione ), a rendere sicuramente preferibile e privilegiata tale interpretazione può valere, nell’àmbito del corpus complessivo delle norme concernenti l’accesso ai corsi di studio universitarii, l’art. 6 del D.M. 22 ottobre 2004, n. 270, che, nell’indicare i “requisiti di ammissione ai corsi di studio”, fa esclusivo riferimento, ai fini della ammissione ad un corso di laurea (di primo livello o magistrale: vedansi i commi dall’1 al 3), al “possesso del diploma di scuola secondaria superiore”, ch’è appunto il titolo imprescindibile previsto per l’ingresso nel mondo universitario; il che rende palese che quando il legislatore fa riferimento alla ammissione ad un corso di laurea, intende riferirsi appunto allo studente ( e solo allo studente ) che chieda di entrare e sia accolto per la prima volta nel sistema;
- a ciò si aggiunga, sempre in un’ottica di lettura sistematica delle disposizioni di vario rango che si accavallano nella materia de qua, che, nel definire “modalità e contenuti delle prove di ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato a livello nazionale a.a. 2012-2013” ( ch’è esattamente l’anno accademico per il quale gli odierni appellati hanno richiesto all’Università di Messina il poi denegato nulla-osta al trasferimento ), il D.M. 28 giugno 2012 usa indifferentemente i termini “ammissione” ed “immatricolazione” ( v. in particolare l’art. 10, comma 1, relativo a “graduatorie, soglia di punteggio minimo e valutazione delle prove”, nonché il punto 9. dell’Allegato n. 1 relativo alle “procedure per la prova di ammissione ai corsi di laurea” di cui si tratta ) ed è ben noto che il secondo dei veduti termini, come pure opportunamente sottolineato nell’ordinanza di rimessione, è comunemente riferito, nello stesso linguaggio ufficiale del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, allo studente, che si iscriva al primo anno di corso e che dunque sia un “novizio” dell’istituzione universitaria;
- non irrilevante, inoltre, può essere il richiamo, nella fattispecie all’esame, del già citato Manifesto degli Studi dell’Università degli Studi di Messina, che, pur recando, come s’è visto, l’obbligatorietà del test di ammissione in Italia per gli studenti provenienti per trasferimento da Università straniere ( clausola, come già detto, del tutto ininfluente ai fini del decidere alla luce della qualificazione datane dal T.A.R. con statuizione non contestata ), riferisce espressamente la “prova di ammissione” al “primo anno di corso”, mentre per le “iscrizioni ad anni successivi al primo” si limita a stabilire il termine, entro il quale devono essere effettuate.
Quanto al piano logico-sistematico valga notare:
- se i contenuti della prova di ammissione di cui all’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264 devono far riferimento ai “programmi della scuola secondaria superiore”, è evidente che la prova è rivolta a coloro che, in possesso del diploma rilasciato da tale scuola ( v. il già citato art. 6 del D.M. n. 270/2004 ), intendono affrontare gli studi universitarii, in un logico continuum temporale con la conclusione degli studi orientati da quei “programmi” e dunque ai soggetti che intendono iscriversi per la prima volta al corso di laurea, sulla base, appunto, del titolo di studio acquisito e delle conoscenze ad esso sottostanti;
- non a caso, in tale direzione, una ulteriore specificazione si ritrova nell’allegato “A” al già citato D.M. 28 giugno 2012 ( “Modalità e contenuti delle prove di ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato a livello nazionale a.a. 2012-2013” ), che, nel definire i programmi relativi ai requisiti delle prove di ammissione ai corsi di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia, prevede che “le conoscenze e le abilità richieste fanno comunque riferimento alla preparazione promossa dalle istituzioni scolastiche che organizzano attività educative e didattiche coerenti con i Programmi Ministeriali”: ne risulta evidente, come correttamente sottolinea l’Ordinanza di rimessione, “il riferimento della norma ad un accertamento da eseguirsi al momento del passaggio dello studente dalla scuola superiore all’università e dunque la dichiarata funzione alla quale la prova risponde: verificare la sussistenza – nello studente che aspira ad essere ammesso al sistema universitario – di requisiti di cultura pre-universitaria” ( pagg. 25 – 26 ).
- ancora, se la prova stessa è volta ad accertare la “predisposizione per le discipline oggetto dei corsi”, è vieppiù chiaro che tale accertamento ha senso solo in relazione ai soggetti che si candidano ad entrare da discenti nel sistema universitario, mentre per quelli già inseriti nel sistema ( e cioè già iscritti ad università italiane o straniere ) non si tratta più di accertare, ad un livello di per sé presuntivo, l’esistenza di una “predisposizione” di tal fatta, quanto piuttosto, semmai, di valutarne l’impegno complessivo di apprendimento ( v. art. 5 del D.M. n. 270/2004 ) dimostrato dallo studente con l’acquisizione dei crediti corrispondenti alle attività formative compiute;
- non a caso, allora, i già richiamati commi 8 e 9 dell’art. 3 del D.M. 16 marzo 2007 danno rilievo esclusivo, in sede ed ai fini del trasferimento degli studenti da un’università ad un’altra, al riconoscimento dei crediti già maturati dallo studente, “secondo criteri e modalità previsti dal regolamento didattico del corso di laurea magistrale di destinazione”;
- nella stessa direzione, per quanto riguarda più da vicino la fattispecie all’esame, l’art. 23 del Regolamento Didattico di Ateneo dell’Università degli Studi di Messina, per i casi di trasferimento di ateneo, non prevede alcuna prova di “ammissione”, ma solo il “riconoscimento dei crediti … [anche] in relazione ad attività di studio e ad esami sostenuti presso università straniere”.
In assenza, in definitiva, di specifiche, contrarie disposizioni di legge ( atteso che, come risulta dall’excursus sopra compiuto, l’art. 4 della legge n. 264/1999 non è applicabile all’ipotesi del trasferimento di studenti universitarii da un Ateneo straniero ad uno nazionale ), potrà legittimamente dispiegarsi, nella materia de qua, la sola autonomia regolamentare degli Atenei, che, anche eventualmente condizionando l’iscrizione-trasferimento al superamento di una qualche prova di verifica del percorso formativo già compiuto:
- stabilirà le modalità di valutazione dell’offerta potenziale dell’ateneo ai fini della determinazione, per ogni anno accademico ed in relazione ai singoli anni di corso, dei posti disponibili per trasferimenti, sulla base del rispetto imprescindibile della ripartizione di posti effettuata dal Ministero negli anni precedenti per ogni singola “coorte al quale lo studente trasferito dovrebbe essere aggregato” ( pag. 35 Ord. rimess. ) e delle intervenute disponibilità di posti sul plafond di ciascuna “coorte”;
- nell’àmbito delle disponibilità per trasferimenti stabilirà le modalità di graduazione delle domande;
- fisserà criterii e modalità per il riconoscimento dei crediti, anche prevedendo “colloqui per la verifica delle conoscenze effettivamente possedute” ( art. 3, comma 8, del D.M. 16 marzo 2007 );
- in tale àmbito determinerà i criterii, con i quali i crediti riconosciuti ( in termini di esami sostenuti ed eventualmente di frequenze acquisite ) si tradurranno nell’iscriziione ad un determinato anno di corso, sulla base del rispetto dei requisiti previsti dall’ordinamento didattico della singola università per la generalità degli studenti ai fini della iscrizione ad anni successivi al primo, con particolare riguardo alla eventuale iscrizione come “ripetenti” ed all’ipotesi, sottolineata dall’Ordinanza di rimessione, in cui “lo studente in questione non ha superato alcun esame e conseguito alcun credito” ( pag. 30 Ord., che correttamente sottolinea come essa “non determinerebbe alcun vincolo per la sede di destinazione ai fini di una sua iscrizione” ), od all’ipotesi in cui lo studente abbia superato un numero di esami in numero tale da non potersi ritenere idoneo che alla sua iscrizione al solo primo anno, ai fini della quale, peraltro, non potrà che affermarsi il suo obbligo di munirsi del requisito di ammissione di cui all’art. 4 della legge n. 264/1999.
4.4 - Una volta tratta, come s’è visto, la conclusione secondo cui il superamento del test può essere richiesto per il solo accesso al primo anno di corso e non anche nel caso di domande d’accesso dall’esterno direttamente ad anni di corso successivi al primo ( nel quale il principio regolante l’iscrizione è unicamente quello del riconoscimento dei crediti formativi, con la conseguenza, ch’è il caso di sottolineare, che gli studenti provenienti da altra università italiana o straniera, che presso la stessa non abbiano conseguito alcun credito o che pur avendone conseguiti non se li siano poi visti riconoscere in assoluto dall’università italiana presso la quale aspirano a trasferirsi, ricadranno nella stessa situazione degli aspiranti al primo ingresso ), occorre considerare la compatibilità di una siffatta proposizione con l’ordinamento europeo.
Ne emerge, come si vedrà di seguito, la maggior aderenza della stessa alle coordinate comunitarie, rispetto a quella della rigida tesi che sostiene invece (per la verità, come s’è visto, in contrasto con la stessa interpretazione letterale e logico-sistematica della normativa nazionale di riferimento) che lo studente, che intenda trasferirsi da una università straniera ad una italiana, deve sottoporsi al test d’ammissione indipendentemente dal fatto di avere ormai superato presso l’ateneo di frequenza gli esami del primo (o dei successivi) anni.
L'ordinamento comunitario garantisce, a talune condizioni, il riconoscimento dei soli titoli di studio e professionali e non anche delle procedure di ammissione, che non risultano armonizzate; ciò, tuttavia, lungi dal confermare la veduta tesi restrittiva, significa nient’altro che il possesso dei requisiti di ammissione ad un ateneo europeo non da’ di per sé “diritto” al trasferimento dello studente in qualsiasi altro Ateneo di diverso Stato dell’Unione Europea.
Detta tesi si rivela in realtà contraria all’apicale principio di libertà di circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati comunitarii ( art. 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ), suscettibile di applicazione non irrilevante nel settore dell’istruzione tenuto conto delle competenze attribuite all’Unione per il sostegno e completamento dell’azione degli Stati membri in materia di istruzione e formazione professionale ( art. 6, lettera e), del Trattato ), nonché degli obiettivi dell’azione dell’Unione fissati dall’art. 165 n. 2 secondo trattino del Trattato stesso, teso proprio a “favorire la mobilità degli studenti …, promuovendo tra l’altro il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio”.
Ferma, dunque, la non equipollenza delle competenze e degli standards formativi richiesti per l’accesso all’istruzione universitaria nazionale ( sì che non sarebbe predicabile l’equivalenza del superamento della prova di ammissione ad un’università straniera con quella prevista dall’ordinamento nazionale ), una limitazione, da parte degli Stati membri, all’accesso degli studenti provenienti da università straniere per gli anni di corso successivi al primo della Facoltà di medicina e chirurgia ( qual è indubbiamente la necessità del superamento, ai fini dell’accesso stesso, di una prova selettiva nazionale predisposta, come s’è visto, ai soli fini della iscrizione al primo anno, in quanto volta ad accertare la “predisposizione” ad un corso di studi in realtà già in parte compiuto da chi intenda iscriversi ad uno degli anni successivi ), si pone in contrasto con il predetto principio di libertà di circolazione.
La stessa Corte di Giustizia ha confortato tale tesi con la sentenza 13 aprile 2010, n. 73 resa nel procedimento C-73/08, affermando che, se è pur vero che il diritto comunitario non arreca pregiudizio alla competenza degli Stati membri per quanto riguarda l'organizzazione dei loro sistemi di istruzione e di formazione professionale - in virtù degli artt. 165, n. 1, TFUE, e 166, n. 1, TFUE -, resta il fatto, tuttavia, che, nell'esercizio di tale potere, gli Stati membri devono rispettare il diritto comunitario, in particolare le disposizioni relative alla libera circolazione e al libero soggiorno sul territorio degli Stati membri (v., in tal senso, sentenze 11 settembre 2007, causa C-76/05, Schwarz e Gootjes-Schwarz, Racc. pag. I-6849, punto 70, nonché 23 ottobre 2007, cause riunite C-11/06 e C-12/06, Morgan e Bucher, Racc. pag. I-9161, punto 24).
Gli Stati membri, ha aggiunto la Corte, sono quindi liberi di optare o per un sistema di istruzione fondato sul libero accesso alla formazione - senza limiti di iscrizione del numero degli studenti -, ovvero per un sistema fondato su un accesso regolato che selezioni gli studenti.
Tuttavia, che essi optino per l'uno o per l'altro di tali sistemi ovvero per una combinazione dei medesimi, le modalità del sistema scelto devono rispettare il diritto dell'Unione e, in particolare, il principio di libertà di circolazione e soggiorno in un altro Stato membro.
Si deve ricordare che, in quanto cittadini italiani, gli odierni appellati godono della cittadinanza dell'Unione ai termini dell’art. 17, n. 1, CE ( ora art. 20 TFUE ) e possono dunque avvalersi, eventualmente anche nei confronti del loro Stato membro d'origine, dei diritti afferenti a tale status (v. sentenza Corte di Giustizia UE 26 ottobre 2006, causa C-192/05, Tas-Hagen e Tas, Racc. pag. I-10451, punto 19).
Tra le fattispecie che rientrano nell'ambito di applicazione del diritto comunitario figurano quelle relative all'esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato CE, in particolare quelle attinenti alla libertà di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri, quale conferita dall'art. 18 CE ( ora art. 21 TFUE ) (v. sentenze Corte di Giustizia UE 11 settembre 2007, causa C-76/05, Schwarz e Gootjes-Schwarz, punto 87 e giurisprudenza citata; nonché sentenza della stessa Corte 23 ottobre 2007, n. 12, nelle cause riunite C-11/06 e C-12/06).
Tale considerazione è particolarmente importante nel settore dell'istruzione, tenuto conto degli obiettivi perseguiti dagli artt. 3, n. 1, lett. q), CE e 149, n. 2, secondo trattino, CE ( ora art. 165 TFUE ), ovverossia, in particolare, favorire la mobilità degli studenti e degli insegnanti ( v. citate sentenze D'Hoop, punto 32, e Commissione/Austria, sentenza 7 luglio 2005, causa C-147/03, Racc. pag. I-5969, punto 44 ).
Poiché il presente contenzioso riguarda appunto studi compiuti in un altro Stato membro, va ancora sottolineato che una normativa nazionale che penalizzi taluni suoi cittadini per il solo fatto di aver esercitato la loro libertà di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro rappresenta una restrizione delle libertà riconosciute dall'art. 18, n. 1, CE ( ora art. 21 TFUE ) a tutti i cittadini dell'Unione ( v. sentenze Corte Giustizia UE 18 luglio 2006, causa C-406/04, De Cuyper, Racc. pag. I-6947, punto 39; Tas-Hagen e Tas, cit., punto 31, nonché Schwarz e Gootjes-Schwarz, cit., punto 93 ).
Più in generale, poi, la facoltà per gli studenti provenienti da altri Stati membri di accedere agli studi di insegnamento superiore costituisce l'essenza stessa del principio della libera circolazione degli studenti ( v. sentenza 7 luglio 2005, causa C-147/03, Commissione/Austria, cit., punti 32, 33 e 70, nonché la giurisprudenza ivi richiamata e, successivamente, la sentenza Bressol, Chaverot e altri/Comunità francese del Belgio, n. 73/2010, cit. ).
Le restrizioni all'accesso ai detti studi, introdotte da uno Stato membro, devono essere quindi limitate a quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti e devono consentire un accesso sufficientemente ampio per i detti studenti agli studi superiori.
A tal riguardo, se, come sottolineato nella stessa Ordinanza di rimessione, la ratio del sistema disegnato dall’art. 4 della legge n. 264/1999 è quella di far sì che l’accesso ( ed il proseguimento nella formazione universitaria ) ai corsi di laurea a numero programmato sia caratterizzato dal perseguimento di alti standards formativi, la ulteriore modalità di selezione predicata dalla veduta tesi restrittiva anche per le iscrizioni ad anni diversi dal primo non risulta strettamente necessaria ai fini del raggiungimento degli obiettivi perseguiti, dal momento che la capacità dei candidati provenienti da università straniere ed interessati al trasferimento per tali anni ben può essere utilmente accertata, così come avviene per i candidati al trasferimento provenienti da università nazionali, mediante un rigoroso vaglio, in sede di riconoscimento dei crediti formativi acquisiti presso l’università straniera in relazione ad attività di studio compiute, frequenze maturate ed esami sostenuti, della qualificazione dello studente, il cui assoggettamento ad una prova di ammissione (richiesta, come s’è visto, dall’ordinamento nazionale solo riguardo alle immatricolazioni) non risulterebbe congruo rispetto all’obiettivo di garanzia di una elevata qualità dell’istruzione universitaria nazionale.
In proposito, si devono anche ricordare i principii della Convenzione di Lisbona sul riconoscimento dei titoli di studio stranieri, come ratificata con legge 11 luglio 2002, n. 148, il cui art. 2 stabilisce che: "La competenza per il riconoscimento dei cicli e dei periodi di studio svolti all'estero e dei titoli di studio stranieri, ai fini dell'accesso all'istruzione superiore, del proseguimento degli studi universitari e del conseguimento dei titoli universitari italiani, è attribuita alle Università ed agli Istituti di istruzione universitaria, che la esercitano nell'ambito della loro autonomia e in conformità ai rispettivi ordinamenti, fatti salvi gli accordi bilaterali in materia".
Il che rappresenta indice normativo significativo del potere/dovere attribuito all’autonomia dell’università di riconoscere i periodi di studio svolti all’estero ( e dunque anche quelli non sfociati in un “titolo” ivi conseguito ), tenendo conto del dato sostanziale costituito dalla completezza, esaustività, corrispondenza dei corsi da accreditare con gli omologhi corsi nazionali, prendendo in considerazione i contenuti formativi del corso di studii seguito all’estero con riferimento alle discipline oggetto d'esame; potere, questo, rispetto al quale completamente ultronea risulta la pretesa di effettuazione di una preliminare verifica della “predisposizione” a studi già in parte compiuti.
Detta norma consente anche di superare qualsiasi dubbio di discriminazione fra studenti universitarii provenienti da università italiane ( che comunque hanno a suo tempo superato, ai fini dell’accesso all’università di provenienza, una prova di ammissione ex art. 4 della legge n. 264/1999 ) e studenti universitarii provenienti da università straniere ( che una prova di ammissione alla stessa non abbiano sostenuto o che comunque abbiano superato una prova di tal fatta del tutto irrilevante per l’ordinamento nazionale ), giacché il trasferimento interviene, sia per lo studente che eserciti la sua “mobilità” in àmbito nazionale che per lo studente proveniente da università straniere, non più sulla base di un requisito pregresso di ammissione agli studi universitarii ormai del tutto irrilevante perché superato dal percorso formativo-didattico già seguito in àmbito universitario, ma esclusivamente sulla base della valutazione dei crediti formativi affidata alla autonomia universitaria, in conformità con i rispettivi ordinamenti, sulla base del principio di autonomia didattica di ciascun ateneo ( art. 11 della legge n. 341 del 1990, che affida l'ordinamento degli studi dei corsi e delle attività formative ad un regolamento degli ordinamenti didattici, denominato "regolamento didattico di ateneo"; v. anche l'art. 2, comma 2, del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270, che dispone che - ai fini della realizzazione della autonomia didattica di cui all'art. 11 della legge n. 341 del 1990 - le università, con le procedure previste dalla legge e dagli statuti, disciplinano gli ordinamenti didattici dei propri corsi di studio in conformità con le disposizioni del medesimo regolamento, nonché l'art. 11, comma 9, dello stesso D.M., che, a proposito dei regolamenti didattici di ateneo, prevede che le università, con appositi regolamenti, riordinano e disciplinano le procedure amministrative relative alle carriere degli studenti in accordo con le disposizioni del regolamento statale ).
4.5 – Ultimo punto in discussione, nel dibattito circa la necessità o meno del superamento della prova preselettiva prevista per l’accesso al primo anno di corso quale condizione per il trasferimento, è quello degli inconvenienti ( creazione di un processo di emigrazione verso università comunitarie aggirando la normativa sull’esame di ammissione ), che deriverebbero dalla affermazione della inapplicabilità ai “trasferimenti” dalle università, tanto più se di altro Stato comunitario, del requisito del superamento della prova di accesso prevista dall’art. 4 della legge n. 264/1999.
Ritiene il Collegio che siffatte obiezioni, pur suffragate da serie preoccupazioni in ordine alla necessità di garantire il rispetto dei principii e degli obiettivi in tema di accesso agli studi universitarii di cui si tratta ai più meritevoli ( e cioè a coloro i quali dimostrino di possedere le maggiori conoscenze ed attitudini con riferimento ad un determinato standard qualitativo ), non consentano in alcun modo di interpretare la normativa nazionale e sovranazionale di riferimento nel veduto senso programmaticamente “antielusivo”:
- non certo la prima, in quanto, come s’è visto, l’art. 4 della legge n. 264/1999 è applicabile ai soli fini dell’immatricolazione e della frequenza al primo anno di corso;
- non la seconda, in presenza di norme sovranazionali, che tendono a garantire la mobilità di studenti e laureati attraverso procedure di riconoscimento non solo di titoli, ma anche dei “cicli e periodi di studio svolti all’estero … ai fini … del proseguimento degli studi universitari”, la cui competenza è demandata alle “Università … che la esercitano nell’ambito della loro autonomia” ( art. 2 legge n. 148/2002 ); garanzia, questa, che sarebbe gravemente ostacolata, senza alcuna giustificazione adeguata, dalla pretesa di negare la valutazione sul merito degli studii effettuati all’estero e quindi l’accesso universitario in mancanza del superamento di “apposite prove di cultura generale” dettate esclusivamente per gli studenti che chiedono di iscriversi al primo anno.
- in realtà, la “predisposizione” di uno studente che abbia già effettuato un percorso formativo all’estero, e che magari sia prossimo alla laurea, è ormai superata dallo stesso percorso di studii fino ad allora effettuato, mentre la capacità ed il merito di tali studenti ( il cui diritto ex art. art. 34, comma 2, Cost. ad attingere ai gradi più alti degli studi la Corte Costituzionale ha ritenuto, con la sentenza n. 383/1998, equamente contemperato col diritto di accedere all’istruzione universitaria per effetto del sistema approntato dalla regolamentazione nazionale per l’accesso alla facoltà di medicina ) vanno accertati, ai fini della iscrizione ad anni successivi al primo presso l’università italiana di destinazione, mediante una rigorosa valutazione di quel percorso, affidata alle Università, da effettuarsi anche mediante un riscontro della effettiva equipollenza delle competenze e degli standards formativi dell’Università di provenienza rispetto a quelli assicurati dall’istruzione universitaria nazionale, la cui presunta “superiorità” è in fin dei conti preconcetta, o, come accortamente osservato dall’Ordinanza di rimessione, “assertiva e sostanzialmente assiomatica”.
Del resto, a voler seguire le obiezioni che fanno riferimento ai detti inconvenienti, elusivo finirebbe per configurarsi anche lo stesso conseguimento di un titolo di studio all’estero, il cui riconoscimento è tuttavia garantito, se pure a certe condizioni.
Deve allora a fortiori ritenersi ugualmente garantito nell’ordinamento nazionale il riconoscimento di “segmenti” di formazione compiuti all’estero ( parimenti previa valutazione concreta dei loro contenuti e caratteristiche ), che non solo, come osservato dall’Ordinanza di rimessione, “non appare … in alcuna misura precluso da principi, normative e prassi vigenti”, ma è espressamente previsto dalla Convenzione di Lisbona come dal nostro Paese ratificata.
Il problema “elusione”, e quello connesso “intransigenza/lassismo”, si risolvono invero non con la creazione di percorsi ad ostacoli volti ad inibire la regolare fruizione di diritti riconosciuti dall’ordinamento, ma predisponendo ed attuando un rigido e serio controllo, affidato alla preventiva regolamentazione degli Atenei, sul percorso formativo compiuto dallo studente che chieda il trasferimento provenendo da altro Ateneo; controllo che abbia riguardo, con specifico riferimento alle peculiarità del corso di laurea di cui di volta in volta si tratta, agli esami sostenuti, agli studii teorici compiuti, alle esperienze pratiche acquisite (ad es., per quanto riguarda il corso di laurea in medicina, attraverso attività cliniche), all’idoneità delle strutture e delle strumentazioni necessarie utilizzate dallo studente durante quel percorso, in confronto agli standards dell’università di nuova accoglienza.
Peraltro, una generalizzata prassi migratoria ( prima in uscita da parte degli studenti che non abbiano inteso sottoporsi o che non abbiano superato la prova nazionale di ammissione e poi in ingresso da parte degli stessi studenti che abbiano compiuto uno o più anni di studii all’estero ) in qualche modo elusiva nel senso di cui sopra è da escludersi sulla base dell’indefettibile limite dei posti disponibili per il trasferimento, da stabilirsi in via preventiva per ogni accademico e per ciascun anno di corso dalle singole Università sulla base del dato concernente la concreta potenzialità formativa di ciascuna, alla stregua del numero di posti rimasti per ciascun anno di corso scoperti rispetto al numero massimo di studenti immatricolabili ( non superiore alla offerta potenziale ch’esse possono sostenere ) per ciascuno di quegli anni ad esse assegnato.
Siffatto limite ( generalmente esiguo in quanto risultante da mancate iscrizioni degli idonei nelle selezioni di ammissione degli anni precedenti o da cessazioni degli studii o da trasferimenti in uscita ) costituisce parametro di contrasto sufficientemente efficace rispetto al temuto movimento migratorio elusivo, come dimostra nella fattispecie all’esame lo stesso Manifesto degli studi oggetto del giudizio, che, a fronte dei 225 posti disponibili per l’accesso al corso di laurea in Medicina e Chirurgia, stabilisce, alla voce “trasferimenti”, che “il numero massimo di Studenti trasferiti che potranno essere iscritti ad ogni di corso è cinque”.
5. – Sulla base delle considerazioni che precedono, l’appello dell’Amministrazione all’esame, che contrasta la sussistenza dei vizii di violazione delle norme partecipative e di difetto di istruttoria ravvisati dal T.A.R. sulla base del solo assunto che l’Università “nel negare il nulla osta al trasferimento ha dato esecuzione a norme vincolanti cosicché non le può essere contestato alcun difetto di istruttoria né di difetto di comunicazione del preavviso di diniego” ( pagg. 4 – 5 app. ), dev’essere respinto, dovendo, come s’è visto, escludersi che la possibilità per gli odierni appellati di transitare alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Messina possa, sulla base, della vigente normativa nazionale ed europea, essere condizionata all’obbligo del test di ingresso previsto per il primo anno, che non può essere assunto come parametro di riferimento per l’attuazione del “trasferimento” in corso di studii, salvo il potere/dovere dell’Università di concreta valutazione, sulla base dei parametri sopra indicati, del “periodo” di formazione svolto all’estero e salvo altresì il rispetto ineludibile del numero di posti disponibili per trasferimento, così come fissato dall’Università stessa per ogni accademico in sede di programmazione, in relazione a ciascun anno di corso.
6. – Il ricorso, previa dichiarazione di inammissibilità dell’atto di intervento ad opponendum, va quindi respinto, con conseguente conferma, nei sensi di cui in motivazione, della sentenza impugnata.
Le spese del presente grado di giudizio possono essere integralmente compensate fra le parti, alla luce dei contrasti giurisprudenziali esistenti sulla questione controversa.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe:
- dichiara inammissibile l’atto di intervento ad opponendum;
- respinge l’appello e, per l’effetto, conferma, nei sensi di cui in motivazione, la sentenza impugnata.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 19 novembre 2014, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Adunanza Plenaria – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei seguenti Magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Raffaele Maria De Lipsis, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere
Carlo Deodato, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere, Estensore
Sergio De Felice, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
Alessandro Corbino, Consigliere
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IL PRESIDENTE |
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L'ESTENSORE |
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IL SEGRETARIO |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 28/01/2015
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione
Ultimo aggiornamento Lunedì 15 Giugno 2015 11:29
Corte di Giustizia: la tutela dei diritti (d'autore e non) nel mondo del web
Giovedì 17 Maggio 2012 13:36
Giorgia Motta
SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione) 16 febbraio 2012
Società dell'informazione - Diritto di autore - Internet - Prestatore di servizi di hosting - Trattamento delle informazioni memorizzate su una piattaforma di rete sociale in linea - Predisposizione di un sistema di filtraggio di tali informazioni al fine di impedire la messa a disposizione di file che ledono i diritti d'autore - Assenza di un obbligo generale di sorvegliare le informazioni memorizzate
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'articolo 267 TFUE, dal presidente del rechtbank van eerste aanleg te Brussel (Belgio), con decisione del 28 giugno 2010, pervenuta in cancelleria il 19 luglio 2010, nel procedimento
BS.
contro
N.,
LA CORTE (Terza Sezione),
composta dal sig. K. Lenaerts, presidente di sezione, dal sig. J. Malenovský (relatore), dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta, dai sigg. G. Arestis e D. Šváby, giudici,
avvocato generale: sig. P. Cruz Villalón
cancelliere: sig.ra M. Ferreira, amministratore principale
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 7 luglio 2011,
considerate le osservazioni presentate:
- per la BS., da B. Michaux, F. de Visscher e F. Brison, advocaten;
- per la N., da P. Van Eecke, advocaat;
- per il governo belga, da T. Materne e J.
-
C. Halleux, in qualità di agenti;
- per il governo italiano, da G. Palmieri, in qualità di agente, assistita da S. Fiorentino, avvocato dello Stato;
- per il governo dei Paesi Bassi, da C. Wissels, in qualità di agente;
- per il governo del Regno Unito, da S. Ossowski, in qualità di agente;
- per la Commissione europea, da A. Nijenhuis e J. Samnadda, in qualità di agenti,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l'avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione delle seguenti direttive:
- 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico») (GU L 178);
- 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione (GU L 167);
- 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (GU L 157, e rettifiche GU 2004, L 195, e GU 2007, L 204);
- 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (GU L 281), e
- 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche) (GU L 201).
2 Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra la BS. (in prosieguo: la «SA.») e la N. (in prosieguo: la «N.»), che gestisce una piattaforma di rete sociale in linea, in merito all'obbligo di quest'ultima di predisporre un sistema di filtraggio delle informazioni memorizzate nella sua piattaforma, onde impedire che siano messi a disposizione file in violazione dei diritti d'autore.
Contesto normativo
Il diritto dell'Unione
La direttiva 2000/31
3 Ai sensi dei considerando quarantacinquesimo, quarantasettesimo e quarantottesimo della direttiva 2000/31:
«(45) Le limitazioni alla responsabilità dei prestatori intermedi previste nella presente direttiva lasciano impregiudicata la possibilità di azioni inibitorie di altro tipo. Siffatte azioni inibitorie possono, in particolare, essere ordinanze di organi giurisdizionali o autorità amministrative che obbligano a porre fine a una violazione o impedirla, anche con la rimozione dell'informazione illecita o la disabilitazione dell'accesso alla medesima.
(...)
(47) Gli Stati membri non possono imporre ai prestatori un obbligo di sorveglianza di carattere generale. Tale disposizione non riguarda gli obblighi di sorveglianza in casi specifici e, in particolare, lascia impregiudicate le ordinanze emesse dalle autorità nazionali secondo le rispettive legislazioni.
(48) La presente direttiva non pregiudica la possibilità per gli Stati membri di chiedere ai prestatori di servizi, che detengono informazioni fornite dai destinatari del loro servizio, di adempiere al dovere di diligenza che è ragionevole attendersi da loro ed è previsto dal diritto nazionale, al fine di individuare e prevenire taluni tipi di attività illecite».
4 L'articolo 14 della direttiva 2000/31, rubricato «Hosting», dispone quanto segue:
«1. Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell'informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:
a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illegalità dell'attività o dell'informazione, o
b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso.
2. Il paragrafo 1 non si applica se il destinatario del servizio agisce sotto l'autorità o il controllo del prestatore.
3. Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri, che un organo giurisdizionale o un'autorità amministrativa esiga che il prestatore impedisca una violazione o vi ponga fine nonché la possibilità, per gli Stati membri, di definire procedure per la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell'accesso alle medesime».
5 Ai sensi dell'articolo 15 della direttiva 2000/31:
«1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.
2. Gli Stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell'informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o a comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l'identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati».
La direttiva 2001/29
6 I considerando sedicesimo e cinquantanovesimo della direttiva 2001/29 enunciano che:
«(16) (...) La presente direttiva dovrebbe essere attuata in tempi analoghi a quelli previsti per l'attuazione della [direttiva 2000/31], in quanto tale direttiva fornisce un quadro armonizzato di principi e regole che riguardano tra l'altro alcune parti importanti della presente direttiva. Questa direttiva lascia impregiudicate le regole relative alla responsabilità della direttiva suddetta.
(...)
(59) In particolare in ambito digitale, i servizi degli intermediari possono essere sempre più utilizzati da terzi per attività illecite. In molti casi siffatti intermediari sono i più idonei a porre fine a dette attività illecite. Pertanto fatte salve le altre sanzioni e i mezzi di tutela a disposizione, i titolari dei diritti dovrebbero avere la possibilità di chiedere un provvedimento inibitorio contro un intermediario che consenta violazioni in rete da parte di un terzo contro opere o altri materiali protetti. Questa possibilità dovrebbe essere disponibile anche ove gli atti svolti dall'intermediario siano soggetti a eccezione ai sensi dell'articolo 5. Le condizioni e modalità relative a tale provvedimento ingiuntivo dovrebbero essere stabilite dal diritto nazionale degli Stati membri».
7 Ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29:
«Gli Stati membri riconoscono agli autori il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente».
8 L'articolo 8 di tale direttiva prevede quanto segue:
«1. Gli Stati membri prevedono adeguate sanzioni e mezzi di ricorso contro le violazioni dei diritti e degli obblighi contemplati nella presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie a garantire l'applicazione delle sanzioni e l'utilizzazione dei mezzi di ricorso. Le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive.
(...)
3. Gli Stati membri si assicurano che i titolari dei diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d'autore o diritti connessi».
La direttiva 2004/48
9 Il ventitreesimo considerando della direttiva 2004/48 è così formulato:
«Fatti salvi eventuali altre misure, procedure e mezzi di ricorso disponibili, i titolari dei diritti dovrebbero avere la possibilità di richiedere un provvedimento inibitorio contro un intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare il diritto di proprietà industriale del titolare. Le condizioni e modalità relative a tale provvedimento inibitorio dovrebbero essere stabilite dal diritto nazionale degli Stati membri. Per quanto riguarda le violazioni del diritto d'autore e dei diritti connessi, la direttiva [2001/29] prevede già un ampio livello di armonizzazione. Pertanto l'articolo 8, paragrafo 3, della direttiva [2001/29] non dovrebbe essere pregiudicato dalla presente direttiva».
10 Ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 3, della direttiva 2004/48:
«La presente direttiva fa salve:
a) le disposizioni comunitarie che disciplinano il diritto sostanziale di proprietà intellettuale, la direttiva 95/46/CE (...) o la direttiva 2000/31/CE in generale e le disposizioni degli articoli da 12 a 15 della direttiva 2000/31/CE in particolare;
(...)».
11 L'articolo 3 della direttiva 2004/48 stabilisce quanto segue:
«1. Gli Stati membri definiscono le misure, le procedure e i mezzi di ricorso necessari ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale di cui alla presente direttiva. Tali misure, procedure e mezzi di ricorso sono leali ed equi, non inutilmente complessi o costosi e non comportano termini irragionevoli né ritardi ingiustificati.
2. Le misure, le procedure e i mezzi di ricorso sono effettivi, proporzionati e dissuasivi e sono applicati in modo da evitare la creazione di ostacoli al commercio legittimo e da prevedere salvaguardie contro gli abusi».
12 L'articolo 11, terza frase, della direttiva 2004/48 dispone quanto segue:
«Gli Stati membri assicurano che i titolari possano chiedere un provvedimento ingiuntivo nei confronti di intermediari i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale, senza pregiudizio dell'articolo 8, paragrafo 3, della direttiva [2001/29]».
Il diritto nazionale
13 L'articolo 87, paragrafo 1, primo e secondo comma, della legge del 30 giugno 1994, sul diritto d'autore e sui diritti connessi (Belgisch Staatsblad, 27 luglio 1994, pag. 19297), che recepisce nel diritto nazionale l'articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 e l'articolo 11 della direttiva 2004/48, dispone quanto segue:
«Il presidente del tribunal de première instance (...) constata l'esistenza e ordina la cessazione di qualsiasi violazione del diritto d'autore o di un diritto connesso.
Egli può altresì emettere un'ingiunzione recante un provvedimento inibitorio nei confronti di intermediari i cui servizi siano utilizzati da un terzo per violare il diritto d'autore o un diritto connesso».
14 Gli articoli 20 e 21 della legge dell'11 marzo 2003, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione (Belgisch Staatsblad, 17 marzo 2003, pag. 12962) recepiscono nel diritto nazionale gli articoli 14 e 15 della direttiva 2000/31.
Causa principale e questione pregiudiziale
15 La SA. è una società di gestione che rappresenta gli autori, i compositori e gli editori di opere musicali. A tale titolo, essa ha, in particolare, il compito di autorizzare l'utilizzo delle loro opere protette da parte di terzi.
16 La N. gestisce una piattaforma di rete sociale in linea sulla quale ogni iscritto riceve uno spazio personale, denominato «profilo», che l'utente stesso può riempire e che è accessibile a livello mondiale.
17 La funzione principale di tale piattaforma, quotidianamente utilizzata da decine di milioni di persone, è quella di creare comunità virtuali che consentono a dette persone di comunicare tra loro e, in tal modo, di stringere amicizie. Sul proprio profilo gli utenti possono, in particolare, tenere un diario, indicare i propri passatempi e preferenze, mostrare i propri amici, visualizzare foto personali o pubblicare estratti di video.
18 La SA. ha tuttavia ritenuto che la rete sociale della N. permetta altresì a tutti gli utenti di utilizzare, tramite il loro profilo, opere musicali ed audiovisive del repertorio della SA., mettendo dette opere a disposizione del pubblico in maniera tale che altri utenti della suddetta rete possano avervi accesso, e questo senza l'autorizzazione della SA. e senza che la N. versi un compenso a tale titolo.
19 Nel corso del mese di febbraio 2009, la SA. si è rivolta alla N. al fine di stipulare una convenzione relativa al versamento, da parte di quest'ultima, di un compenso per l'utilizzo del repertorio della SA..
20 Con lettera del 2 giugno 2009, la SA. ha intimato alla N. di impegnarsi a cessare immediatamente e per il futuro la messa a disposizione del pubblico non autorizzata di opere musicali e audiovisive del suo repertorio.
21 Il 23 giugno 2009 la SA. ha fatto notificare alla N. un atto di citazione dinanzi al presidente del rechtbank van eerste aanleg te Brussel, nell'ambito di un'azione inibitoria ai sensi dell'articolo 87, paragrafo 1, della legge del 30 giugno 1994, sul diritto d'autore e sui diritti connessi, chiedendo, in particolare, che venga ordinato alla N. di cessare immediatamente qualsiasi messa a disposizione illecita delle opere musicali o audiovisive del repertorio della SA., sotto pena del pagamento di una sanzione pecuniaria di 1 000 euro per ogni giorno di ritardo.
22 A tale riguardo, la N. ha sostenuto che l'accoglimento dell'azione della SA. equivarrebbe ad imporre alla N. un obbligo generale di sorveglianza, vietato dall'articolo 21, paragrafo 1, della legge dell'11 marzo 2003, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, che recepisce nel diritto nazionale l'articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31.
23 Inoltre, la N. ha affermato, senza essere contraddetta dalla SA., che l'accoglimento di un'azione siffatta potrebbe avere l'effetto di costringerla a predisporre, nei confronti della sua intera clientela, in abstracto e a titolo preventivo, a sue spese e senza limiti nel tempo, un sistema di filtraggio della maggior parte delle informazioni memorizzate sui suoi server, al fine di individuare file elettronici contenenti opere musicali, cinematografiche o audiovisive sulle quali la SA. affermi di vantare diritti e, successivamente, di bloccarne lo scambio.
24 Orbene, la predisposizione di un simile sistema di filtraggio farebbe, probabilmente, sorgere l'obbligo di sottoporre i dati personali ad un trattamento che deve essere conforme alle disposizioni del diritto dell'Unione sulla protezione dei dati personali e sul segreto delle comunicazioni.
25 Per questi motivi, il presidente del rechtbank van eerste aanleg te Brussel ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se le direttive 2001/29 e 2004/48, lette in combinato disposto con le direttive 95/46, 2000/31 e 2002/58, interpretate, in particolare, alla luce degli articoli 8 e 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, [firmata a Roma il 4 novembre 1950,] consentano agli Stati membri di autorizzare un giudice nazionale, adito nell'ambito di un procedimento nel merito e in base alla sola disposizione di legge che prevede che “[I giudici nazionali possono] altresì emettere un'ingiunzione recante un provvedimento inibitorio nei confronti di intermediari i cui servizi siano utilizzati da un terzo per violare il diritto d'autore o un diritto connesso”, ad ordinare ad un fornitore di servizi di hosting di predisporre, nei confronti della sua intera clientela, in abstracto e a titolo preventivo, esclusivamente a sue spese e senza limitazioni nel tempo, un sistema di filtraggio della maggior parte delle informazioni che vengono memorizzate sui suoi server, al fine di individuare file elettronici contenenti opere musicali, cinematografiche o audiovisive sulle quali la SA. affermi di vantare diritti e, successivamente, di bloccare lo scambio di questi file».
Sulla questione pregiudiziale
26 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se le direttive 2000/31, 2001/29, 2004/48, 95/46 e 2002/58, lette nel loro combinato disposto ed interpretate alla luce delle condizioni che la tutela dei diritti fondamentali applicabili implica, debbano essere interpretate nel senso che ostano all'ingiunzione, rivolta da un giudice nazionale ad un prestatore di servizi di hosting, di predisporre un sistema di filtraggio:
- delle informazioni memorizzate sui server di detto prestatore dagli utenti dei suoi servizi;
- che si applichi indistintamente nei confronti di tutti questi utenti;
- a titolo preventivo;
- a spese esclusive del prestatore, e
- senza limiti nel tempo,
idoneo ad identificare i file elettronici contenenti opere musicali, cinematografiche o audiovisive rispetto alle quali il richiedente il provvedimento di ingiunzione affermi di vantare diritti di proprietà intellettuale, onde bloccare la messa a disposizione del pubblico di dette opere, lesiva del diritto d'autore (in prosieguo: il «sistema di filtraggio controverso»).
27 A tale proposito, è anzitutto pacifico che il gestore di una piattaforma di rete sociale in linea, quale la N., memorizza sui propri server informazioni fornite dagli utenti di tale piattaforma e relative al loro profilo e che, pertanto, questi è un prestatore di servizi di hosting ai sensi dell'articolo 14 della direttiva 2000/31.
28 Occorre altresì rammentare che, secondo gli articoli 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 e 11, terza frase, della direttiva 2004/48, i titolari di diritti di proprietà intellettuale possono chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti dei gestori di piattaforme di reti sociali in linea, come la N., che agiscono in qualità di intermediari ai sensi delle suddette disposizioni, dato che i loro servizi possono essere utilizzati dagli utenti di simili piattaforme per violare i diritti di proprietà intellettuale.
29 Inoltre, dalla giurisprudenza della Corte emerge che la competenza attribuita, a norma di tali disposizioni, ai giudici nazionali deve consentire a questi ultimi di ingiungere a detti intermediari di adottare provvedimenti diretti non solo a porre fine alle violazioni già inferte ai diritti di proprietà intellettuale mediante i loro servizi della società dell'informazione, ma anche a prevenire nuove violazioni (v. sentenza del 24 novembre 2011, Scarlet Extended, C
-
70/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 31).
30 Infine, dalla medesima giurisprudenza si evince che le modalità delle ingiunzioni che gli Stati membri devono prevedere ai sensi di detti articoli 8, paragrafo 3, e 11, terza frase, quali quelle relative alle condizioni che devono essere soddisfatte e alla procedura da seguire, devono essere stabilite dal diritto nazionale (v. sentenza Scarlet Extended, cit., punto 32).
31 Ciò premesso, le norme nazionali istituite dagli Stati membri, al pari della loro applicazione da parte dei giudici nazionali, devono rispettare i limiti derivanti dalle direttive 2001/29 e 2004/48, nonché dalle fonti del diritto alle quali tali direttive fanno riferimento (v. sentenza Scarlet Extended, cit., punto 33).
32 Così, conformemente al sedicesimo considerando della direttiva 2001/29 ed all'articolo 2, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/48, le suddette norme non possono pregiudicare le disposizioni della direttiva 2000/31 e, più precisamente, i suoi articoli 12
-
15 (v. sentenza Scarlet Extended, cit., punto 34).
33 Di conseguenza, le medesime norme devono rispettare, segnatamente, l'articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, che vieta alle autorità nazionali di adottare misure che impongano ad un prestatore di servizi di hosting di procedere ad una sorveglianza generalizzata sulle informazioni che esso memorizza (v., per analogia, sentenza Scarlet Extended, cit., punto 35).
34 A questo riguardo, la Corte ha già dichiarato che siffatto divieto abbraccia, in particolare, le misure nazionali che obblighino un prestatore intermedio, come un prestatore di servizi di hosting, a realizzare una sorveglianza attiva su tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione di diritti di proprietà intellettuale. Peraltro, un siffatto obbligo di sorveglianza generale sarebbe incompatibile con l'articolo 3 della direttiva 2004/48, il quale enuncia che le misure contemplate da detta direttiva devono essere eque, proporzionate e non eccessivamente costose (v. sentenza Scarlet Extended, cit., punto 36).
35 Alla luce di tali premesse, occorre esaminare se l'ingiunzione di cui al procedimento principale, che imporrebbe al prestatore di servizi di hosting di predisporre il sistema di filtraggio controverso, lo obblighi a realizzare, in tale occasione, una sorveglianza attiva su tutti i dati di ciascuno degli utenti dei suoi servizi per prevenire qualsiasi futura violazione di diritti di proprietà intellettuale.
36 A tale riguardo, è pacifico che la predisposizione di tale sistema di filtraggio presupporrebbe che il prestatore di servizi di hosting:
- identifichi, anzitutto, all'interno dell'insieme dei file memorizzati sui suoi server da tutti gli utenti dei suoi servizi, quelli che possono contenere opere su cui i titolari di diritti di proprietà intellettuale affermano di vantare diritti;
- determini, successivamente, quali dei suddetti file siano memorizzati e messi a disposizione del pubblico in maniera illecita, e
- proceda, infine, al blocco della messa a disposizione dei file che ha considerato illeciti.
37 Pertanto, una siffatta sorveglianza preventiva richiederebbe un'osservazione attiva dei file memorizzati dagli utenti presso il prestatore di servizi di hosting e riguarderebbe sia la quasi totalità delle informazioni così memorizzate sia ciascuno degli utenti dei servizi di tale prestatore (v., per analogia, sentenza Scarlet Extended, cit., punto 39).
38 Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre dichiarare che l'ingiunzione rivolta al prestatore di servizi di hosting di predisporre il sistema di filtraggio controverso lo obbligherebbe a procedere ad una sorveglianza attiva della quasi totalità dei dati relativi a ciascuno degli utenti dei suoi servizi, onde prevenire qualsiasi futura violazione di diritti di proprietà intellettuale. Ne consegue che la suddetta ingiunzione imporrebbe al prestatore di servizi di hosting una sorveglianza generalizzata, vietata dall'articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (v., per analogia, sentenza Scarlet Extended, cit., punto 40).
39 Per vagliare la conformità di tale ingiunzione al diritto dell'Unione, occorre inoltre tenere conto delle condizioni che discendono dalla tutela dei diritti fondamentali applicabili, come quelli menzionati dal giudice del rinvio.
40 In proposito va ricordato che l'ingiunzione oggetto del procedimento principale è volta a garantire la tutela dei diritti d'autore, che appartengono alla sfera del diritto di proprietà intellettuale e che possono essere lesi dalla natura e dal contenuto di talune informazioni memorizzate e messe a disposizione del pubblico attraverso il servizio fornito dal prestatore di servizi di hosting.
41 Sebbene la tutela del diritto di proprietà intellettuale sia sancita dall'articolo 17, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), non può desumersi né da tale disposizione né dalla giurisprudenza della Corte che tale diritto sia intangibile e che la sua tutela debba essere garantita in modo assoluto (sentenza Scarlet Extended, cit., punto 43).
42 Come emerge, infatti, dai punti 62
-
68 della sentenza del 29 gennaio 2008, Promusicae (C
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275/06, Racc. pag. I
-
271), la tutela del diritto fondamentale di proprietà, di cui fanno parte i diritti di proprietà intellettuale, deve essere bilanciata con quella di altri diritti fondamentali.
43 Più precisamente, dal punto 68 di tale sentenza emerge che è compito delle autorità e dei giudici nazionali, nel contesto delle misure adottate per proteggere i titolari di diritti d'autore, garantire un giusto equilibrio tra la tutela di tali diritti e quella dei diritti fondamentali delle persone su cui incidono dette misure.
44 Pertanto, in circostanze come quelle del procedimento principale, le autorità ed i giudici nazionali devono, in particolare, garantire un giusto equilibrio tra la tutela del diritto di proprietà intellettuale, di cui godono i titolari di diritti d'autore, e quella della libertà d'impresa, di cui beneficiano operatori quali i prestatori di servizi di hosting in forza dell'articolo 16 della Carta (v. sentenza Scarlet Extended, cit., punto 46).
45 Orbene, nel procedimento principale, l'ingiunzione di predisporre il sistema di filtraggio controverso implica una sorveglianza, nell'interesse di tali titolari, sulla totalità o sulla maggior parte delle informazioni memorizzate presso il prestatore di servizi di hosting coinvolto. Tale sorveglianza è inoltre illimitata nel tempo, riguarda qualsiasi futura violazione e postula che si debbano tutelare non solo opere esistenti, bensì anche opere che non sono state ancora create nel momento in cui viene predisposto detto sistema.
46 Un'ingiunzione di questo genere causerebbe, quindi, una grave violazione della libertà di impresa del prestatore di servizi di hosting, poiché l'obbligherebbe a predisporre un sistema informatico complesso, costoso, permanente e unicamente a sue spese, il che risulterebbe peraltro contrario alle condizioni stabilite dall'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2004/48, il quale richiede che le misure adottate per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale non siano inutilmente complesse o costose (v., per analogia, sentenza Scarlet Extended, cit., punto 48).
47 Occorre pertanto dichiarare che l'ingiunzione di predisporre il sistema di filtraggio controverso non può considerarsi conforme all'esigenza di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, la tutela del diritto di proprietà intellettuale, di cui godono i titolari dei diritti d'autore, e, dall'altro, quella della libertà d'impresa, di cui beneficiano operatori come i prestatori di servizi di hosting (v., per analogia, sentenza Scarlet Extended, cit., punto 49).
48 Per di più, gli effetti di detta ingiunzione non si limiterebbero al prestatore di servizi di hosting, poiché il sistema di filtraggio controverso è idoneo a ledere anche i diritti fondamentali degli utenti dei servizi di tale prestatore, ossia il loro diritto alla tutela dei dati personali e la loro libertà di ricevere o di comunicare informazioni, diritti, questi ultimi, tutelati dagli articoli 8 e 11 della Carta.
49 Infatti, l'ingiunzione di predisporre il sistema di filtraggio controverso implicherebbe, da un lato, l'identificazione, l'analisi sistematica e l'elaborazione delle informazioni relative ai profili creati sulla rete sociale dagli utenti della medesima, informazioni, queste, che costituiscono dati personali protetti, in quanto consentono, in linea di principio, di identificare i suddetti utenti (v., per analogia, sentenza Scarlet Extended, cit., punto 51).
50 Dall'altro, detta ingiunzione rischierebbe di ledere la libertà di informazione, poiché tale sistema potrebbe non essere in grado di distinguere adeguatamente tra un contenuto illecito ed un contenuto lecito, sicché il suo impiego potrebbe produrre il risultato di bloccare comunicazioni aventi un contenuto lecito. Infatti, è indiscusso che la questione della liceità di una trasmissione dipende anche dall'applicazione di eccezioni di legge al diritto d'autore che variano da uno Stato membro all'altro. Inoltre, in determinati Stati membri talune opere possono rientrare nel pubblico dominio o possono essere state messe in linea a titolo gratuito da parte dei relativi autori (v., per analogia, sentenza Scarlet Extended, cit., punto 52).
51 Pertanto, occorre dichiarare che, adottando un'ingiunzione che costringa il prestatore di servizi di hosting a predisporre il sistema di filtraggio controverso, il giudice nazionale in questione non rispetterebbe l'obbligo di garantire un giusto equilibrio tra il diritto di proprietà intellettuale, da un lato, e la libertà di impresa, il diritto alla tutela dei dati personali e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni, dall'altro (v., per analogia, sentenza Scarlet Extended, cit., punto 53).
52 Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alla questione sottoposta dichiarando che le direttive 2000/31, 2001/29 e 2004/48 lette in combinato disposto e interpretate alla luce delle esigenze di tutela dei diritti fondamentali applicabili, devono essere interpretate nel senso che ostano all'ingiunzione, rivolta ad un prestatore di servizi di hosting, di predisporre il sistema di filtraggio controverso.
Sulle spese
53 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
Le direttive:
- 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico»);
- 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione, e
- 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale,
lette in combinato disposto e interpretate alla luce delle esigenze di tutela dei diritti fondamentali applicabili, devono essere interpretate nel senso che ostano all'ingiunzione, rivolta da un giudice nazionale ad un prestatore di servizi di hosting, di predisporre un sistema di filtraggio:
- delle informazioni memorizzate sui server di detto prestatore dagli utenti dei suoi servizi;
- che si applichi indistintamente nei confronti di tutti questi utenti;
- a titolo preventivo;
- a spese esclusive del prestatore, e
- senza limiti nel tempo,
idoneo ad identificare i file elettronici contenenti opere musicali, cinematografiche o audiovisive rispetto alle quali il richiedente il provvedimento di ingiunzione affermi di vantare diritti di proprietà intellettuale, onde bloccare la messa a disposizione del pubblico di dette opere, lesiva del diritto d'autore.
Ultimo aggiornamento Giovedì 17 Maggio 2012 13:52
Personale ATA dagli enti locali allo Stato: va considerata l'anzianità pregressa?
Martedì 14 Giugno 2011 14:21
Alberto Ingrao
CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
YVES BOT
presentate il 5 aprile 2011 (1)
Causa C-108/10
I. S.
contro
Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca
[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Tribunale ordinario di Venezia (Italia)]
Politica sociale - Direttiva 77/187/CEE - Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti - Trasferimento del personale di una pubblica amministrazione ad un'altra pubblica amministrazione - Riconoscimento, da parte della normativa nazionale, come interpretata dall'organo giurisdizionale supremo di tale Stato membro, dell'anzianità maturata prima di detto trasferimento quale diritto da mantenere - Adozione di una legge retroattiva che esclude tale interpretazione - Divieto per gli Stati membri di interferire, mediante l'adozione di leggi retroattive, con azioni giudiziarie - Principio della tutela giurisdizionale effettiva - Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - Art. 47
1. La presente domanda di decisione pregiudiziale verte sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti (2), nonché sull'interpretazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva, sancito dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (3).
2. La domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra la sig.ra S. ed il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca in merito al mancato riconoscimento, a seguito del trasferimento della sig.ra S. alle dipendenze del Ministero, dell'intera anzianità di servizio che la medesima aveva maturato presso il comune di Scorzè, suo originario datore di lavoro.
3. Nella causa in esame la Corte è invitata a precisare la propria giurisprudenza per quanto concerne, da una parte, il campo d'applicazione della direttiva 77/187 in caso di trasferimento d'impresa tra pubbliche amministrazioni e, dall'altra parte, il riconoscimento da parte del cessionario dell'anzianità maturata dal personale trasferito presso il cedente.
4. Viene parimenti offerta alla Corte l'opportunità di pronunciarsi sulla portata del diritto ad un ricorso effettivo alla luce di una norma di legge che, ponendosi in contrasto con una giurisprudenza nazionale favorevole a che il cessionario tenga conto dell'intera anzianità di servizio maturata dal personale trasferito presso il cedente, produce un effetto immediato su tutta una serie di procedimenti giudiziari pendenti, tra cui quello avviato dalla sig.ra S., a favore della posizione opposta, difesa dallo Stato italiano.
5. Nelle presenti conclusioni esporrò le ragioni per le quali, a mio avviso, la direttiva 77/187 deve essere interpretata nel senso che essa si applica ad un trasferimento come quello oggetto del procedimento principale, ossia il trasferimento del personale addetto ai servizi ausiliari di pulizia, di manutenzione e di sorveglianza degli edifici scolastici statali dagli enti pubblici locali (comuni e province) allo Stato.
6. Spiegherò, quindi, che, a mio avviso, in una fattispecie come quella in esame nel procedimento principale in cui, da una parte, le condizioni retributive previste dal contratto collettivo in vigore nei confronti del cedente non sono basate principalmente sul criterio dell'anzianità maturata presso detto datore di lavoro, e, dall'altra parte, il contratto collettivo in vigore nei confronti del cessionario sostituisce quello che era in vigore nei confronti del cedente, l'art. 3, nn. 1 e 2, della direttiva 77/187 deve essere interpretato nel senso che esso non esige che il cessionario tenga conto dell'anzianità maturata dal personale trasferito presso il cedente ai fini del calcolo della retribuzione di detto personale, anche nell'ipotesi in cui il contratto collettivo in vigore nei confronti del cessionario preveda che il calcolo della retribuzione sia basato principalmente sul criterio dell'anzianità.
7. Infine, proporrò alla Corte di dichiarare che l'art. 47 della Carta deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una disposizione legislativa come quella contestata nell'ambito del procedimento principale, a condizione che sia dimostrato, segnatamente in base a dati numerici, che l'adozione della medesima era volta a garantire la neutralità economica dell'operazione di trasferimento del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) dagli enti locali allo Stato, cosa che spetta al giudice del rinvio verificare.
I - Contesto normativo
A - La normativa dell'Unione
8. Atteso che il trasferimento di cui nel procedimento principale è avvenuto il 1° gennaio 2000, ossia prima della data di scadenza del termine di trasposizione della direttiva del Consiglio 29 giugno 1998, 98/50/CE, che modifica la direttiva 77/187 (4), vale a dire il 17 luglio 2001, alla presente causa si applica la versione iniziale della direttiva 77/187 (5).
9. L'art. 1, n. 1, della medesima direttiva dispone quanto segue:
«La presente direttiva si applica ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti ad un nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a fusione».
10. L'art. 2 della suddetta direttiva così recita:
«Ai sensi della presente direttiva si intende:
a) per "cedente", ogni persona fisica o giuridica che, in conseguenza di un trasferimento a norma dell'articolo 1, paragrafo 1, perde la veste di imprenditore rispetto all'impresa, allo stabilimento o a parte dell'impresa o dello stabilimento;
b) per "cessionario", ogni persona fisica o giuridica che, in conseguenza di un trasferimento a norma dell'articolo 1, paragrafo 1, acquisisce la veste di imprenditore rispetto all'impresa, allo stabilimento o a parte dell'impresa o dello stabilimento;
(...)».
11. Ai sensi dell'art. 3 della direttiva 77/187:
«1. I diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 1, sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario.
(...)
2. Dopo il trasferimento ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 1, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest'ultimo per il cedente, fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell'entrata in vigore o dell'applicazione di un altro contratto collettivo.
Gli Stati membri possono limitare il periodo del mantenimento delle condizioni di lavoro purché esso non sia inferiore ad un anno.
(...)»
12. L'art. 4 della stessa direttiva prevede:
«1. Il trasferimento di un'impresa, di uno stabilimento o di una parte di stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. (...)
2. Se il contratto di lavoro o il rapporto di lavoro è rescisso in quanto il trasferimento ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 1, comporta a scapito del lavoratore una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, la rescissione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro è considerata come dovuta alla responsabilità del datore di lavoro».
13. L'art. 7 della suddetta direttiva dispone che quest'ultima «non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare e di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli per i lavoratori subordinati».
B - La normativa nazionale
1. L'art. 2112 del Codice Civile e l'art. 34 del decreto legislativo n. 29/93
14. In Italia, l'attuazione della direttiva 77/187/CE e, successivamente, della direttiva del Consiglio 12 marzo 2001, 2001/23/CE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti (6), è garantita, segnatamente, dall'art. 2112 del Codice Civile, secondo il quale «(i)n caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. (...) Il cessionario è tenuto ad applicare i (...) contratti collettivi (...) vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario».
15. L'art. 34 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego (7), nella versione in vigore all'epoca dei fatti, prevede che «nel caso di trasferimento (...) di attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applica l'art. 2112 del codice civile (...)».
L'art. 8 della legge n. 124/99, i relativi decreti ministeriali di attuazione e la giurisprudenza correlata
16. Fino al 1999, i servizi ausiliari delle scuole pubbliche italiane, come quelli di pulizia, manutenzione e vigilanza, erano garantiti e finanziati dallo Stato. Quest'ultimo delegava, in parte, la gestione di tali servizi ad enti locali, quali i comuni. Detti servizi erano effettuati, in parte, tramite il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) statale e, in parte, dagli enti locali.
17. Gli enti locali effettuavano tali servizi tramite il proprio personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (in prosieguo: il «personale ATA degli enti locali») ovvero mediante la stipula di contratti di appalto con imprese private. Il personale ATA degli enti locali era retribuito da questi ultimi, dietro integrale rimborso di tutti i costi da parte dello Stato.
18. Il personale ATA degli enti locali veniva retribuito sulla base del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro - Regioni Autonomie Locali (in prosieguo: il «CCNL del personale degli enti locali»). Il personale ATA dello Stato impiegato nelle scuole pubbliche era invece retribuito sulla base del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro della Scuola (in prosieguo: il «CCNL della scuola»). Secondo le disposizioni del CCNL della scuola, la retribuzione si basa in misura considerevole sull'anzianità, mentre il CCNL del personale degli enti locali prevedeva un calcolo della retribuzione più complesso, legato alle funzioni esercitate e che integrava elementi salariali accessori.
19. La legge 3 maggio 1999, n. 124/99, recante disposizioni urgenti in materia di personale scolastico (8), ha previsto il trasferimento del personale ATA degli enti locali nei ruoli del personale ATA dello Stato, a decorrere dal 1° gennaio 2000.
20. A tale riguardo, l'art. 8 della legge n. 124/99 così recita:
«1. Il personale ATA degli istituti e scuole statali di ogni ordine e grado è a carico dello Stato. Sono abrogate le disposizioni che prevedono la fornitura di tale personale da parte dei comuni e delle province.
2. Il personale di ruolo di cui al comma l, dipendente dagli enti locali, in servizio nelle istituzioni scolastiche statali alla data di entrata in vigore della presente legge, è trasferito nei ruoli del personale ATA statale ed è inquadrato nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali corrispondenti per lo svolgimento dei compiti propri dei predetti profili. Relativamente a qualifiche e profili che non trovino corrispondenza nei ruoli del personale ATA statale è consentita l'opzione per l'ente di appartenenza, da esercitare comunque entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. A detto personale vengono riconosciuti ai fini giuridici ed economici l'anzianità maturata presso l'ente locale di provenienza nonché il mantenimento della sede in fase di prima applicazione in presenza della relativa disponibilità del posto.
(...)
4. Il trasferimento del personale di cui ai commi 2 e 3 avviene gradualmente, secondo tempi e modalità da stabilire con decreto del Ministro della pubblica istruzione (...).
5. A decorrere dall'anno in cui hanno effetto le disposizioni di cui ai commi 2, 3 e 4 si procede alla progressiva riduzione dei trasferimenti statali a favore degli enti locali in misura pari alle spese comunque sostenute dagli stessi enti nell'anno finanziario precedente a quello dell'effettivo trasferimento del personale (...)».
21. Alla legge n. 124/99 ha fatto seguito il decreto ministeriale 23 luglio 1999, relativo al trasferimento del personale ATA dagli enti locali allo Stato, ai sensi dell'art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124 (9). Tale decreto così disponeva:
«Articolo 1
Il personale ATA di ruolo dipendente dagli enti locali e in servizio, alla data del 25 maggio 1999, nelle istituzioni scolastiche statali, per lo svolgimento di funzioni e compiti demandati per legge agli enti locali, in sostituzione dello Stato, è trasferito nei ruoli del personale ATA statale.
Articolo 2
Il trasferimento dagli enti locali allo Stato delle funzioni e del personale ATA, di cui al precedente art. 1, è disciplinato nei termini e con le modalità di cui agli articoli seguenti.
Articolo 3
Gli enti locali provvederanno, fino al termine dell'esercizio finanziario 1999, alla retribuzione e all'applicazione del (CCNL del personale degli enti locali), del personale di ruolo che passa allo Stato per effetto dell'art. 8 della (legge n. 124/99). (...) (V)errà corrisposta, a titolo provvisorio, a decorrere dallo gennaio 2000 la retribuzione stipendiale in godimento al personale trasferito.
Con successivo decreto del Ministro della pubblica istruzione (...) verranno definiti i criteri di inquadramento, nell'ambito del comparto scuola, finalizzati all'allineamento degli istituti retributivi del personale in questione a quelli del comparto medesimo, con riferimento alla retribuzione stipendiale, ai trattamenti accessori e al riconoscimento ai fini giuridici ed economici, nonché dell'incidenza sulle rispettive gestioni previdenziali, dell'anzianità maturata presso gli enti, previa contrattazione collettiva (...) fra [l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (in prosieguo: l'«ARAN»)] e le organizzazioni sindacali rappresentative dei comparti "Scuola" ed "Enti locali", (...), ai sensi dell'art. 34 del decreto legislativo n. 29/93 (...).
(...)
Articolo 5
A decorrere dal 10 gennaio 2000, il personale di ruolo alla data del 25 maggio 1999 presso gli enti locali, in servizio presso scuole statali e trasferito nei ruoli dello Stato è collocato nelle aree e nei profili corrispondenti a quello di appartenenza (...).
(...)
Articolo 7
Il personale che passa dagli enti locali allo Stato per effetto del presente decreto sarà tenuto anche al mantenimento di tutti i preesistenti compiti attribuiti, purché previsti nel profilo statale.
Articolo 8
Al personale già dipendente dagli enti locali e trasferito allo Stato, verrà riconosciuto il diritto alla assegnazione della medesima sede di servizio occupata nell'anno scolastico 1998/99. In caso di indisponibilità del posto si provvederà, per l'anno scolastico 2000/2001, alle utilizzazioni secondo i vigenti contratti decentrati.
Articolo 9
Lo Stato subentrerà nei contratti stipulati dagli enti locali alla data del 24 maggio 1999, ed eventualmente rinnovati in data successiva, per la parte con la quale sono state assicurate le funzioni ATA per le scuole statali, in luogo dell'assunzione di personale dipendente. (...) Ferma restando la prosecuzione delle attività da parte di soggetti esterni impegnati (...) ai sensi delle leggi vigenti, lo Stato subentrerà nelle convenzioni stipulate dagli enti locali con i soggetti imprenditoriali (...) per lo svolgimento di funzioni ATA demandate per legge all'ente locale in sostituzione dello Stato. (...)
(...)».
22. L'accordo tra l'ARAN e le organizzazioni sindacali previsto dall'art. 3 del decreto ministeriale 23 luglio 1999 è stato firmato il 20 luglio 2000 ed approvato dal decreto ministeriale 5 aprile 2001, recante recepimento dell'accordo ARAN - Rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni sindacali in data 20 luglio 2000, sui criteri di inquadramento del personale già dipendente degli enti locali e transitato nel comparto scuola» (10).
23. Tale accordo dispone quanto segue:
«Articolo 1 - Ambito di applicazione
Il presente accordo si applica dal 1° gennaio 2000 al personale dipendente dagli enti locali e transitato nel comparto scuola, ai sensi dell'art. 8 della (legge n. 124/99) e (...) del decreto ministeriale 23 luglio 1999 (...), con esclusione del personale che svolge funzioni o compiti rimasti di competenza dell'ente locale.
Articolo 2 - Regime contrattuale
1. Al personale di cui al presente accordo (...) cessa di applicarsi a decorrere dal 1° gennaio 2000 il (CCNL del personale degli enti locali) e dalla stessa data si applica il (CCNL della scuola), ivi compreso tutto quanto si riferisce al trattamento accessorio, salvo quanto diversamente stabilito negli articoli successivi.
(...)
Articolo 3 - Inquadramento professionale e retributivo
1. I dipendenti, di cui all'art. l del presente accordo, sono inquadrati nella progressione economica per posizioni stipendiali delle corrispondenti qualifiche professionali del comparto scuola (...) con le seguenti modalità. Ai suddetti dipendenti viene attribuita la posizione stipendiale (...) d'importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito da stipendio e retribuzione individuale di anzianità nonché, per coloro che ne sono provvisti, (dalle indennità previste dal CCNL del personale degli enti locali). L'eventuale differenza tra l'importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, come sopra indicato, è corrisposta «ad personam» e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. Al personale destinatario del presente accordo è corrisposta l'indennità integrativa speciale nell'importo in godimento al 31 dicembre 1999, se più elevata di quella della corrispondente qualifica del comparto scuola. L'inquadramento definitivo, nei profili professionali della scuola, del personale di cui al presente accordo dovrà essere disposto tenendo conto della tabella (...) di equiparazione (...).
(...)
Articolo 9 - Retribuzione fondamentale e salario accessorio
1. A decorrere dal 1^ gennaio 2000, al personale di cui al presente accordo si applicano tutti gli istituti a contenuto economico del (CCNL della scuola), secondo le modalità da questo previste.
2. A decorrere dal 1^ gennaio 2000, al personale di cui al presente accordo, è riconosciuto, a titolo provvisorio, il compenso individuale accessorio secondo le misure lorde mensili indicate nella tabella (...) allegata al (CCNL della scuola). (...)
(...)».
24. L'interpretazione di tale normativa ha dato luogo ad azioni giudiziarie promosse dai membri del personale ATA trasferito, i quali hanno chiesto il pieno riconoscimento della loro anzianità maturata presso gli enti locali, senza che si tenesse conto dei criteri di inquadramento adottati nell'ambito dell'accordo tra l'ARAN e le organizzazioni sindacali e approvati con il decreto ministeriale 5 aprile 2001. Questi deducevano, a tal riguardo, che i criteri adottati nell'ambito del detto accordo facevano sì che essi, a partire dal loro inserimento nel personale ATA dello Stato, venissero inquadrati e retribuiti alla stessa maniera dei membri del personale ATA statale con minore anzianità. Secondo la loro tesi, l'art. 8 della legge n. 124/99 impone il mantenimento, per ogni membro del personale ATA trasferito, dell'anzianità maturata presso gli enti locali, in modo che ciascuno di detti membri deve percepire, a decorrere dal 1° gennaio 2000, la retribuzione corrisposta ad un membro del personale ATA statale con la medesima anzianità.
25. Tale contenzioso è sfociato in diverse sentenze pronunciate dalla Corte di cassazione nel 2005, nelle quali questa ha, in sostanza, accolto la suddetta argomentazione.
2. La legge n. 266/2005 e la giurisprudenza correlata
26. Il legislatore italiano, con l'approvazione di un «super-emendamento» (emendamento presentato dal governo ed approvato con voto di fiducia), ha inserito nell'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006) (11), un nuovo comma, il comma 218, contenente una norma interpretativa dell'art. 8 della legge n. 124/99 con portata retroattiva.
27. L'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 dispone quanto segue:
«Il comma 2 dell'art. 8 della legge 3 maggio 1999 n. 124, si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del (personale ATA) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all'atto del trasferimento, con l'attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai (CCNL del personale degli enti locali), vigenti alla data dell'inquadramento. L'eventuale differenza tra l'importo della posizione stipendiale di inquadramento e il trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 (...) viene corrisposta ad personam e considerata utile, previa temporizzazione, ai fini del conseguimento della successiva posizione stipendiale. È fatta salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».
28. Vari giudici hanno rimesso alla Corte costituzionale italiana questioni di conformità costituzionale dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005. Secondo tali giudici, tale norma interpretativa imponeva loro, nell'ambito di cause già pendenti in cui lo Stato è parte, di accogliere un'interpretazione favorevole a quest'ultimo, peraltro incompatibile con il tenore dell'art. 8, comma 2, della legge n. 124/99 e contraria all'interpretazione di tale disposizione fornita dalla Corte di cassazione. L'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 reintrodurrebbe il sistema previsto dall'accordo 20 luglio 2000 e dal decreto ministeriale 5 aprile 2001, che la Corte di cassazione aveva ritenuto contrario alla legge n. 124/99. Vi sarebbe stata dunque un'ingerenza del legislatore nella funzione nomofilattica che, nella Repubblica italiana, è riservata alla Corte di cassazione, e sarebbero in tal modo stati lesi l'autonomia del potere giudiziario nonché i principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento.
29. Con sentenza 18 giugno 2007, n. 234 (12) nonché con successive ordinanze, la Corte costituzionale ha dichiarato che l'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 non era viziato dalle asserite violazioni di principi generali del diritto.
30. Successivamente a tale intervento della Corte costituzionale, la Corte di cassazione, con sentenza 16 gennaio 2008, n. 677, ha rivisto la propria giurisprudenza precedente ed ha affermato che l'interpretazione dell'art. 8, comma 2, della legge n. 124/99 fornita dal legislatore nell'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 è plausibile.
31. Nondimeno, la Corte di cassazione, con ordinanza 3 giugno 2008, n. 22260, ha invitato la Corte costituzionale a riesaminare la propria posizione alla luce dei principi enunciati nell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»).
32. Con sentenza 16 novembre 2009, n. 311 (13), la Corte costituzionale ha dichiarato che l'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 è compatibile con i diritti fondamentali sanciti dall'art. 6 della CEDU.
II - La causa principale e le questioni pregiudiziali
33. La sig.ra S., dipendente del comune di Scorzè dal 16 maggio 1980 in qualità di bidella in scuole statali, svolgeva tale attività, fino al 31 dicembre 1999, come membro del personale ATA degli enti locali. Detto personale svolge attività di pulizia, di manutenzione e di vigilanza delle scuole pubbliche italiane.
34. A decorrere dal 1^ gennaio 2000, la medesima, in applicazione dell'art. 8 della legge n. 124/99, veniva trasferita nel ruolo del personale ATA dello Stato.
35. Ai sensi del decreto ministeriale 5 aprile 2001, la sig.ra S. veniva inquadrata in una fascia retributiva corrispondente, nel suddetto ruolo, a nove anni di anzianità.
36. Non avendo quindi ottenuto il riconoscimento dei 20 anni di anzianità maturati presso il comune di Scorzè ed avendo, inoltre, perduto le voci di stipendio accessorie previste dal CCNL del personale degli enti locali, essa ritiene di avere subito una decurtazione di EUR 790 della propria retribuzione.
37. Con ricorso depositato il 27 aprile 2005, la sig.ra S. adiva il Tribunale ordinario di Venezia al fine di ottenere il riconoscimento dell'intera anzianità maturata presso il comune di Scorzè e di essere conseguentemente inquadrata nella fascia corrispondente ad un'anzianità da quindici a venti anni. Ella rivendicava, quindi, il diritto di essere integrata nelle stesse categorie retributive del personale ATA assunto sin dall'inizio dallo Stato ed in possesso della sua stessa anzianità. A sostegno del ricorso, invocava, in particolare, l'art. 2112 del Codice Civile, l'art. 8 della legge n. 124/99 e le sentenze della Corte di cassazione del 2005, le quali riconoscono il diritto del personale ATA trasferito al mantenimento della propria anzianità.
38. A seguito dell'adozione dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005, il Tribunale di Venezia ha sospeso il giudizio proposto dalla sig.ra S. e ha rimesso alla Corte costituzionale la questione della compatibilità della suddetta disposizione con i principi della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, della parità delle armi nel processo e del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, nonché ad un tribunale indipendente e ad un equo processo. Il legislatore italiano, approvando la citata disposizione al fine di interpretare una legge adottata più di cinque anni prima e già interpretata dalla Corte di cassazione, avrebbe voluto definire un risultato diverso, questa volta favorevole allo Stato, nelle numerose controversie ancora pendenti.
39. Con ordinanza 9 giugno 2008, n. 212 (14), la Corte costituzionale, richiamandosi alla propria sentenza 18 giugno 2007, n. 234, ha dichiarato che l'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 non era viziato dalle asserite violazioni di principi generali del diritto.
40. A seguito della riassunzione del procedimento, la sig.ra S. ha sottolineato che l'art. 8, comma 2, della legge n. 124/99, come interpretato ai sensi dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005, è incompatibile con la regola sancita all'art. 3 della direttiva 77/187 e con i principi generali del diritto dell'Unione relativi alla certezza del diritto, alla tutela del legittimo affidamento ed alla tutela giurisdizionale effettiva.
41. Il Tribunale ordinario di Venezia ritiene che, alla luce della direttiva 77/187, si debba tenere conto dell'intera anzianità del personale trasferito. L'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 sarebbe in contrasto con tale regola e costituirebbe, inoltre, una norma retroattiva innovativa e non interpretativa, che lederebbe i principi garantiti dall'art. 6 TUE, in combinato disposto con l'art. 6 della CEDU e con gli artt. 47 e 52, n. 3, della Carta. La suddetta disposizione sarebbe, allo stesso tempo, contraria ai principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento.
42. Ciò premesso, il Tribunale ordinario di Venezia ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se la direttiva 77/187 (...) e/o la direttiva 2001/23 (...), o la diversa normativa (dell'Unione) ritenuta applicabile debba essere interpretata nel senso che quest'ultima può applicarsi ad una fattispecie di trasferimento di personale addetto a servizi ausiliari di pulizia e manutenzione degli edifici scolastici statali da enti pubblici locali (comuni e province) allo Stato laddove il trasferimento ha comportato il subentro non solo nell'attività e nei rapporti con tutto il personale (bidelli) addetto, ma anche nei contratti di appalto stipulati con imprese private per garantire i medesimi servizi.
2) Se la continuità del rapporto di lavoro ex art. 3, n. 1, primo comma, della direttiva 77/187 (...) [trasfusa, unitamente alla direttiva 98/50 (...), nella direttiva 2001/23 (...)] debba essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all'anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito, anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente.
3) Se l'art. 3 della direttiva 77/187 (...) e/o le direttive (...) 98/50 (...) e 2001/23 (...), debbano essere interpretate nel senso che tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l'anzianità di servizio se a questa risultano essere collegati, nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico.
4) Se i principi generali del vigente diritto (dell'Unione) della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, dell'effettiva tutela giurisdizionale, ad un tribunale indipendente e, più in generale, ad un equo processo, garantiti dall'art. 6, n. 2, (TUE) in combinato disposto con l'art. 6 della (CEDU) e con gli artt. 46, 47 e 52, n. 3, della (Carta) debbano essere interpretati nel senso di ostare all'emanazione da parte dello Stato italiano, dopo un arco temporale apprezzabile (5 anni), di una norma di interpretazione autentica difforme rispetto al dettato da interpretare e contrastante con l'interpretazione costante e consolidata dell'organo titolare della funzione nomofilattica, norma oltretutto rilevante per la decisione di controversie in cui lo stesso Stato italiano è coinvolto come parte».
III - Analisi
A - Sulla prima questione
43. Con la prima questione, il giudice del rinvio vuole sapere, in sostanza, se la direttiva 77/187 sia applicabile in caso di trasferimento del personale addetto ai servizi ausiliari di pulizia e manutenzione dei locali scolastici dello Stato dagli enti pubblici locali (comuni e province) allo Stato.
44. In altri termini, se la circostanza che un trasferimento abbia luogo tra due enti che siano persone giuridiche di diritto pubblico sia o meno idonea a determinare l'esclusione di siffatto trasferimento dal campo di applicazione della direttiva 77/187.
45. Il governo italiano fa valere che, in una situazione di tal genere di trasferimento del personale nell'ambito della riorganizzazione di un settore pubblico, non sussiste un «trasferimento d'impresa» ai sensi di questa direttiva. La sig.ra S. e la Commissione europea sostengono la tesi opposta.
46. La sentenza 15 ottobre 1996, Henke (15) costituisce un precedente interessante al fine di risolvere questa questione.
47. Al fine di intendere appieno la portata di detta sentenza, occorre ricordarne i fatti. La signora Henke era stata assunta in qualità di segretario del sindaco dal Comune di Schierke (Germania). Detto comune aveva successivamente deciso di costituire insieme ad altri comuni, in applicazione della normativa comunale del Land Saxe-Anhalt, l'ente amministrativo intercomunale «Brocken», al quale esso trasferiva determinate funzioni amministrative. Di conseguenza, il comune di Schierke aveva rescisso il contratto di lavoro con la sig.ra Henke. Nell'ambito della controversia tra detto comune e la sig.ra Henke, l'Arbeitsgericht Halberstadt decideva di investire la Corte perché si pronunciasse sulla questione se la direttiva 77/187 fosse applicabile in caso di trasferimento di compiti amministrativi da un comune ad un consorzio intercomunale, come quello in causa nella controversia principale.
48. La Corte ha interpretato l'art. 1 della direttiva 77/187 nel senso che non costituisce un «trasferimento d'impresa», ai sensi di questa direttiva, la riorganizzazione delle strutture dell'amministrazione o il trasferimento di compiti amministrativi tra amministrazioni pubbliche (16).
49. Oltre a prendere in considerazione l'obiettivo e il disposto della detta direttiva (17), la Corte ha rilevato che si trattava di un consorzio che aveva interessato diversi comuni del Land di Saxe-Anhalt, tra cui il comune di Schierke, e che aveva segnatamente lo scopo di migliorare lo svolgimento dei compiti amministrativi di detti comuni. La Corte ha constatato che detto raggruppamento aveva comportato, in particolare, la riorganizzazione delle strutture amministrative e il trasferimento di funzioni amministrative dal comune di Schierke a un ente pubblico creato appositamente a tal fine: l'ente amministrativo intercomunale «Brocken» (18).
50. Essa ha quindi osservato che, nella circostanze della fattispecie, il trasferimento operato tra il comune e l'ente amministrativo intercomunale aveva avuto ad oggetto solo attività comportanti l'esercizio di pubblici poteri. Anche ammettendo che tali attività comprendessero elementi di natura economica, questi ultimi potevano avere solo carattere accessorio (19).
51. Da detti elementi desumo che tale esclusione dal campo di applicazione della direttiva 77/187 è motivata non dalla natura giuridica di diritto pubblico degli enti in questione, ma piuttosto, secondo un approccio funzionale, dalla circostanza che un trasferimento riguardi attività rientranti nell'esercizio di pubblici poteri. Per contro, se un trasferimento concerne un'attività economica, esso rientra nel campo di applicazione di questa direttiva. Poco importa, al riguardo, la natura giuridica di diritto privato o di diritto pubblico del cedente e del cessionario. Sentenze successive testimoniano il mantenimento ad opera della Corte di tale approccio funzionale, che pone l'accento sull'esistenza o meno di un'attività rientrante nell'esercizio di pubblici poteri (20).
52. Volendo ora qualificare le attività oggetto della causa principale, dalla giurisprudenza, come confermata ancora di recente, emerge che i servizi ausiliari prestati presso le scuole dello Stato, come quelli di pulizia e di manutenzione, non costituiscono attività rientranti nell'esercizio dei pubblici poteri.
53. In due cause recenti, la Corte è stata invitata ad interpretare la direttiva 2001/23 con riguardo a fattispecie in cui un comune aveva acquisito attività esercitate in precedenza da imprese private. Si trattava, nella sentenza 29 luglio 2010, UGT-FSP (21), di attività di custodia e di pulizia di edifici scolastici pubblici, di pulizia delle strade e di manutenzione di parchi e giardini (22). Peraltro, nella sentenza 20 gennaio 2001, CLECE (23), l'attività in causa riguardava la pulizia delle scuole e dei locali municipali (24).
54. In queste due sentenze la Corte ha dichiarato che tali attività presentano carattere economico e ricadono, dunque, nell'ambito di applicazione delle norme comunitarie relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese. Essa ha nuovamente affermato che la semplice circostanza che il cessionario sia un ente di diritto pubblico, nella specie un comune, non consente di escludere l'esistenza di un trasferimento rientrante nell'ambito di applicazione della suddetta direttiva (25).
55. Desumo da questi elementi che la direttiva 77/187, salvo la verifica degli altri criteri per la sua applicazione, è applicabile in caso di trasferimento di personale addetto ai servizi ausiliari di pulizia, di manutenzione e di sorveglianza degli edifici scolastici dello Stato dagli enti pubblici locali (comuni e province) allo Stato.
56. Resta da verificare se, nella specie, risultino soddisfatti gli altri criteri stabiliti dalla Corte ai fini di valutare se un trasferimento costituisca un «trasferimento d'impresa», ai sensi della direttiva 77/187.
57. Ai sensi del suo art. 1, n. 1, la direttiva 77/187 «si applica ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti ad un nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a fusione».
58. A questo riguardo, da consolidata giurisprudenza emerge che la nozione di cessione contrattuale deve intendersi in maniera sufficientemente elastica per rispondere all'obiettivo della direttiva 77/187, che, come emerge dal suo secondo ‘considerando', è quello di tutelare i lavoratori subordinati in caso di cambiamento del titolare dell'impresa (26). La Corte ha dunque dichiarato che la direttiva trova applicazione in tutti i casi di cambiamento, nell'ambito di rapporti contrattuali, della persona fisica o giuridica responsabile dell'impresa, che assume gli obblighi del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti dell'impresa stessa (27).
59. Tale giurisprudenza è applicabile anche in caso di trasferimento imposto per legge. La sig.ra S. ricorda, giustamente, la giurisprudenza secondo la quale la direttiva 77/187 ricomprende parimenti i trasferimenti risultanti da decisioni unilaterali delle pubbliche amministrazioni, considerato che il criterio determinante non è dato dall'esistenza di un accordo contrattuale tra il cedente e il cessionario, bensì dal cambiamento della persona responsabile della gestione dell'impresa (28).
60. Affinché la direttiva 77/187 sia applicabile, occorre anche verificare se il trasferimento verta su un'entità economica che mantiene la sua identità dopo il cambiamento del titolare dell'impresa.
61. Per poter stabilire se tale entità conservi la propria identità, devono essere prese in considerazione tutte le circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano, in particolare, il tipo di impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno di elementi materiali, quali gli edifici e i beni mobili, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un'eventuale sospensione di tali attività. Tutti questi elementi, tuttavia, sono soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere considerati isolatamente (29).
62. La Corte ha già avuto modo di rilevare che un'entità economica è in grado, in determinati settori, di operare senza elementi patrimoniali - materiali o immateriali - significativi, di sorta che la conservazione della sua identità, al di là dell'operazione di cui essa è oggetto, non può, per ipotesi, dipendere dalla cessione di tali elementi (30). La Corte ha infatti dichiarato che, quando, in determinati settori in cui l'attività si fondi essenzialmente sulla mano d'opera, un gruppo di lavoratori che svolga stabilmente un'attività comune può corrispondere ad un'entità economica, si deve necessariamente ammettere che tale entità possa conservare la sua identità al di là del trasferimento, qualora il nuovo imprenditore non si limiti a proseguire l'attività stessa, ma riassuma anche una parte essenziale, in termini di numero e di competenza, del personale specificamente destinato dal predecessore a tali compiti. In una siffatta ipotesi, il nuovo imprenditore acquisisce infatti il complesso organizzato di elementi che gli consentirà il proseguimento delle attività o di talune attività dell'impresa cedente in modo stabile (31).
63. Dalla giurisprudenza della Corte si evince che un'attività di pulizia e di manutenzione degli edifici scolastici, come quella in causa nel procedimento principale, si fonda essenzialmente sulla mano d'opera, e, pertanto, un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente detta attività comune di pulizia, di manutenzione e di sorveglianza può, in mancanza di altri fattori produttivi, corrispondere ad un'entità economica (32).
64. Da questi elementi desumo che, nella causa principale, l'identità dell'ente economico è mantenuta a causa della riassunzione da parte dello Stato di lavoratori in precedenza addetti a questi compiti dai comuni (33).
65. Come sottolinea dalla Commissione, il personale ATA interessato dalla legge n. 124/99 è stata trasferito in blocco, le sue attività di pulizia, di manutenzione e di vigilanza sono rimaste globalmente immutate sotto il profilo sia del loro oggetto, sia della loro organizzazione, e sono state realizzate negli stessi luoghi e senza alcuna interruzione. La solo modifica ha riguardato l'identità del datore di lavoro.
66. Aggiungo che la continuità di questo complesso organizzato di elementi che consente l'attuazione delle attività di pulizia, di manutenzione e di vigilanza in seno alle scuole trova parimenti espressione nella rilevazione da parte dello Stato dei contratti con i quali gli enti locali, in taluni casi avevano affidato l'esecuzione di dette attività a imprese private.
67. Infine, si deve ricordare che la direttiva 77/187 non si applica a persone che non sono tutelate in quanto lavoratori in forza della normativa nazionale. Infatti, questa direttiva mira solo ad un'armonizzazione parziale della materia in questione, ma non mira ad instaurare un livello di tutela uniforme nell'intera Comunità europea secondo criteri comuni (34). Dalla decisione di rinvio emerge, tuttavia, che il personale ATA de quo è soggetto al regime di diritto comune dei rapporti di lavoro, come previsto dal codice civile italiano (35).
68. Dall'insieme di questi elementi emerge che il trasferimento del personale ATA risultante dalla legge n. 124/99 rientra nell'ambito di applicazione della direttiva 77/187.
B - Sulla seconda e la terza questione
69. Con la seconda e la terza questione, che suggerisco alla Corte di esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede alla Corte stessa, in sostanza, di stabilire se l'art. 3, n. 1, della direttiva 77/187, che prevede che i diritti e gli obblighi risultanti per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento siano trasferiti al cessionario, implichi che il cessionario debba tenere conto, nel calcolo della retribuzione del personale trasferito, dell'intera anzianità maturata presso il cedente.
70. Ricordo che tale domanda del giudice del rinvio nasce dall'apparente divergenza tra la legge n. 124/99, l'accordo tra l'ARAN e le organizzazioni sindacali ripreso nel decreto ministeriale 5 aprile 2001 ed, infine, la legge n. 266/2005. Infatti, mentre la legge n. 124/99 sembra prevedere una presa in considerazione totale dell'anzianità maturata dal personale ATA presso gli enti locali, l'accordo sindacale e, quindi, la legge n. 266/2005 dispongono, per contro, che le condizioni di remunerazione di detto personale a seguito del trasferimento devono essere stabilite sulla base di quanto il personale stesso percepiva alla scadenza del rapporto di lavoro con il cedente. Vengono dunque ad opporsi due modalità di determinazione della retribuzione del personale trasferito, vale a dire un calcolo nuovo che tenga conto, nell'ambito della tabella retributiva del cessionario basata principalmente sull'anzianità, della totalità dell'anzianità maturata presso il cedente, oppure la continuità della retribuzione precedentemente percepita sulla base delle «conquiste economiche» alla vigilia del trasferimento.
71. Alla luce della precisazione apportata dalla legge n. 266/2005, che indica che l'intenzione iniziale del legislatore italiano era quella di garantire la continuità delle retribuzioni e non una ripresa totale dell'anzianità precedentemente maturata presso il cedente, il giudice del rinvio desidera sapere se la direttiva 77/187 esiga, invece, detto riconoscimento dell'anzianità.
72. Rammento che, ai sensi dell'art. 3, n. 1, primo comma, della direttiva 77/187, i diritti e gli obblighi risultanti per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento, in conseguenza di tale trasferimento, sono trasferiti al cessionario.
73. Laddove le condizioni di retribuzione del personale ATA siano stabilite con contratti collettivi, detta disposizione non deve essere interpretata isolatamente, ma in combinazione con l'art. 3, n. 2, di questa stessa direttiva, il quale, come indicato dalla Corte, «limita il principio dell'applicabilità del contratto collettivo al quale fa riferimento il contratto di lavoro» (36).
74. Ricordo che, ai sensi di questa disposizione, «(D)opo il trasferimento ai sensi dell'art. 1, paragrafo 1, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest' ultimo per il cedente, fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell' entrata in vigore o dell' applicazione di un altro contratto collettivo».
75. La causa principale corrisponde all'ultima fattispecie di cui all'art. 3, n. 2, della direttiva 77/187, vale a dire quella in cui il trasferimento è seguito dall'applicazione di un altro contratto collettivo. Nella specie, infatti, il personale ATA in precedenza impiegato dagli enti locali nell'ambito di un contratto collettivo dei medesimi, si è trovato, con il trasferimento, assoggettato ad un nuovo contratto collettivo, quello concernente il personale dello Stato (37).
76. Questi due contratti collettivi prevedono metodi di calcolo delle retribuzioni del personale, oggetto dei contratti medesimi, molto diversi. Secondo le disposizioni del CCNL della scuola, la retribuzione si fonda, in larga misura, sull'anzianità, mentre il CCNL del personale degli enti locali prevedeva una struttura di retribuzione più complessa, legata alle funzioni svolte e contenente elementi salariali accessori.
77. Dal disposto dell'art. 3, n. 2, della direttiva 77/187, come interpretato dalla Corte, emerge che i lavoratori oggetto di un trasferimento possono avvalersi delle condizioni di lavoro previste da un contratto collettivo, per ipotesi quello di cui beneficiavano presso il cedente e che poteva prevedere condizioni più favorevoli, solo finché tale contratto collettivo, in virtù del diritto nazionale, sia produttivo di effetti giuridici nei loro confronti (38).
78. Come precisato dalla Corte con riguardo alla data di scadenza di un contratto collettivo, l'art. 3, n. 2, di questa direttiva «mira quindi ad assicurare il mantenimento di tutte le condizioni di lavoro conformemente alla volontà delle parti contraenti del contratto collettivo, e ciò nonostante il trasferimento d'impresa. Per contro, questa stessa disposizione non è idonea a derogare alla volontà di dette parti, così come manifestata nel contratto collettivo. Di conseguenza, se le parti contraenti hanno stabilito di non garantire talune condizioni di lavoro oltre una determinata data, (l'art. 3, n. 2, della direttiva 77/187) non può imporre al cessionario l'obbligo di rispettarle posteriormente alla data convenuta di scadenza del contratto collettivo, giacché, al di là di questa data, il contratto collettivo di cui trattasi non è più in vigore» (39). Secondo la Corte, «(n)e consegue che (questa disposizione) non impone al cessionario di garantire il mantenimento delle condizioni di lavoro stabilite con il cedente oltre la data della scadenza del contratto collettivo» (40).
79. A mio avviso, questa giurisprudenza vale, per analogia, nel caso in cui, per effetto del trasferimento, il contratto collettivo in vigore nei confronti del cedente venga sostituito da quello in vigore nei confronti del cessionario. In tale ipotesi, l'art. 3, n. 2, della direttiva 77/187 non impone al cessionario di mantenere le condizioni di lavoro previste dal contatto collettivo vigenti nei confronti del cedente.
80. È dunque perfettamente conforme a questa disposizione il fatto che il personale ATA trasferito, a decorrere dal 1^ gennaio 2000, data del trasferimento, si sia trovato assoggettato alle disposizioni del CCNL della scuola e, di conseguenza, alle condizioni e alle modalità di calcolo della retribuzione applicabili al personale dello Stato. Il personale trasferito non poteva, dunque, più avvalersi dei vantaggi ad esso accordati dal CCNL del personale degli enti locali e, segnatamente, dei diritti pecuniari conferiti dal medesimo.
81. A titolo d'esempio, in una fattispecie di tal genere di successione di contratti collettivi, il personale trasferito non può invocare nei confronti del cessionario il beneficio di una gratifica che fosse prevista dal contratto collettivo in precedenza applicabile presso il cedente. La composizione e le modalità di calcolo dello stipendio dopo il trasferimento sono disciplinate esclusivamente dal contratto collettivo nuovamente applicabile presso il cessionario (41).
82. Il problema principale consiste quindi nell'accertare se, al fine di determinare la retribuzione del personale trasferito in funzione dei criteri previsti dal contratto collettivo applicabile nei confronti del cessionario, che attribuisce un peso predominante al criterio dell'anzianità, la direttiva 77/187 imponga, anche in caso di successione di contratti collettivi, di tener conto dell'intera anzianità precedentemente maturata da detto personale presso il cedente.
83. La giurisprudenza della Corte contiene elementi utili ai fini della soluzione della questione generale del riconoscimento dell'anzianità.
84. In tale senso, nella citata sentenza Collino e Chiappero, la Corte ha dichiarato che l'«anzianità acquisita dai lavoratori trasferiti presso il loro originario datore di lavoro non costituisce, di per sé, un diritto che questi potrebbero far valere presso il loro nuovo datore di lavoro» (42). Per contro, a suo giudizio, l'«anzianità serve a determinare taluni diritti dei lavoratori di natura pecuniaria e sono questi diritti che dovranno, se del caso, essere salvaguardati dal cessionario allo stesso modo del cedente » (43).
85. Secondo la Corte, ne consegue che, «per il calcolo di diritti di natura pecuniaria, quali un trattamento di fine rapporto o aumenti di stipendio, il cessionario è tenuto a prendere in considerazione tutti gli anni di servizio effettuati dal personale trasferito nella misura in cui questo obbligo risultava dal rapporto di lavoro che vincolava tale personale al cedente e conformemente alle modalità pattuite nell'ambito di detto rapporto » (44).
86. In questa sentenza la Corte ha affrontato la questione della presa in considerazione dell'anzianità secondo una logica che pone l'accento sul parallelismo dei rapporti di lavoro successivi e si fonda sulla necessità di un'equivalenza della tutela dei diritti riconosciuti ai lavoratori nell'ambito di tali rapporti.
87. È peraltro in virtù di questa stessa logica che la Corte ha temperato immediatamente il principio di un riconoscimento da parte del cessionario, dei diritti pecuniari derivanti dall'anzianità di cui il personale trasferito godeva presso il cedente precisando che, «ove il diritto nazionale consenta, al di fuori dell'ipotesi di un trasferimento di impresa, di modificare il rapporto di lavoro in senso sfavorevole ai lavoratori, in particolare per quanto riguarda la loro tutela contro il licenziamento e le loro condizioni di retribuzione, una modifica del genere non è esclusa per il semplice fatto che l'impresa sia stata nel frattempo trasferita e che, di conseguenza, l'accordo sia stato concluso con il nuovo imprenditore. Infatti, dato che il cessionario, a norma dell'art. 3, n. 1, della direttiva (77/187), è surrogato al cedente nei diritti e negli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, questo può essere modificato nei confronti del cessionario negli stessi limiti in cui la modifica sarebbe stata possibile nei confronti del cedente; ben inteso, in nessun caso il trasferimento dell'impresa può costituire di per sé il motivo di tale modifica» (45). Si tratta di una delle conseguenze del meccanismo di surrogazione. Il rapporto di lavoro può essere modificato nei confronti del cessionario negli stessi limiti in cui la modifica era possibile nei confronti del cedente.
88. In sintesi, dalla sentenza Collino e Chiappero, citata supra, consegue che il personale trasferito può invocare nell'ambito del proprio rapporto di lavoro con il cessionario gli stessi diritti pecuniari derivanti dall'anzianità di cui beneficiava nell'ambito del rapporto di lavoro con il cedente. Tuttavia, il cessionario ha sempre la possibilità di modificare i termini del rapporto di lavoro, e, in particolare, le condizioni della retribuzione, nel modo in cui lo poteva fare il cedente in virtù del diritto nazionali al di fuori dell'ipotesi di trasferimento.
89. La direttiva 77/187 intende evitare che il trasferimento d'impresa costituisca, di per sé, l'occasione per una modificazione in pejus della situazione del lavoratore, vale a dire la soppressione o la riduzione dei diritti acquisiti. Devono essere presi in considerazione soltanto i diritti che potevano essere opposti al cedente. Non vi è quindi un diritto ad una parità di trattamento con i nuovi colleghi (eventualmente meglio retribuiti), né, tantomeno, un diritto ad un'estensione retroattiva delle norme eventualmente più favorevoli previste dal cessionario, per gli anni passati alle dipendenze del cedente (46).
90. Il tenore dei diritti e degli obblighi che sono trasmessi dipende dal diritto nazionale applicabile e varierà di conseguenza. Come ribadito dalla Corte, la direttiva 77/187 non mira ad instaurare un livello di tutela uniforme in funzione di criteri comuni. Per questo motivo, come precisato nella sentenza 10 febbraio 1988, Foreningen af Arbejdsledere i Danmark (47), ci si può avvalere delle norme della direttiva solo per garantire che il lavoratore sia tutelato, nei rapporti con il cessionario, nello stesso modo in cui era protetto nei rapporti con il cedente, secondo le norme del diritto interno dello Stato membro (48).
91. Ne consegue che i lavoratori trasferiti hanno diritto ad un calcolo della loro retribuzione che tenga conto della loro anzianità complessivamente maturata presso il cedente soltanto nel caso in cui il contratto di lavoro stipulato con quest'ultimo prevedesse tale diritto e quest'ultimo non sia stato validamente modificato dal cessionario indipendentemente dal trasferimento dell'impresa.
92. Orbene, abbiamo visto che, nella vigenza del CCNL del personale degli enti locali, la retribuzione era calcolata principalmente in base al tipo di funzione esercitata, integrando elementi salariali accessori e, dunque, non prevalentemente in base all'anzianità. In virtù della logica di equivalenza, il personale trasferito non può dunque esigere dal cessionario, in forza dell'art. 3, n. 1, della direttiva 77/187, che esso tenga conto della totalità dell'anzianità maturata al servizio del cedente.
93. In ogni caso, tenuto conto dei rilievi precedentemente svolti relativi alla portata dell'art. 3, n. 2, di questa direttiva, come interpretata dalla Corte, dubito che, in caso di successione di contratti collettivi come quello nella specie della causa principale, tale disposizione consenta ai lavoratori di avvalersi, nei confronti del cessionario, dei diritti pecuniari derivanti dall'anzianità di cui avrebbero potuto beneficiare in virtù del contratto collettivo che vincolava il cedente.
94. Si deve tuttavia precisare che l'esistenza di disparità retributive rispetto ai lavoratori già alle dipendenze dello Stato non è, di per sé, contraria alla direttiva 77/187. Infatti, essa non si spinge sino ad esigere che, per effetto di una fictio, i dipendenti del primo datore di lavoro siano retroattivamente assimilati a quelli del secondo, con esattamente gli stessi diritti di quelli. La direttiva de qua fissa il principio di una prosecuzione del rapporto di lavoro con il mantenimento delle condizioni di lavoro, e non quello di un cambiamento di dette condizioni al fine di allinearle alle condizioni di lavoro dei dipendenti che siano da sempre stati alle dipendenze del nuovo datore di lavoro.
95. La sentenza 11 novembre 2004, Delahaye (49) solleva, tuttavia, un dubbio quanto alla portata della direttiva 77/187 in materia di riconoscimento dell'anzianità del personale trasferito, in quanto la Corte sembra mostrarsi attenta alla parità di trattamento tra il personale trasferito e il personale già al servizio del cessionario.
96. I fatti della causa principale da cui è scaturita detta sentenza possono essere così riassunti. La sig.ra Delahaye era dipendente di un'associazione la cui attività veniva trasferita allo Stato lussemburghese. Di conseguenza, essa veniva assunta in qualità di impiegata dallo Stato lussemburghese. In base al regolamento granducale riguardante la retribuzione dei dipendenti dello Stato, alla sig.ra Delahaye veniva attribuita una retribuzione inferiore a quella che essa percepiva in base al contratto stipulato con il suo datore di lavoro originario (50).
97. In tale causa, la questione sottoposta dalla Cour administrative (Lussemburgo) mirava ad accertare, in sostanza, se la direttiva 77/187 osti a che, in caso di trasferimento di un'impresa da una persona giuridica di diritto privato allo Stato, questo, in quanto nuovo datore di lavoro, proceda a una riduzione dell'importo della retribuzione dei lavoratori interessati allo scopo di conformarsi alle vigenti norme nazionali relative ai pubblici dipendenti.
98. A tal riguardo, la Corte, richiamandosi alla propria giurisprudenza e, in particolare, alla sentenza Mayeur, citata supra, ha affermato che «(p)oiché la direttiva 77/187 persegue soltanto un'armonizzazione parziale della materia di cui trattasi (...), (essa) non osta, in caso di trasferimento di un'attività ad una persona giuridica di diritto pubblico, all'applicazione del diritto nazionale che prescriva la rescissione dei contratti di lavoro di diritto privato» (51). La Corte ha precisato, tuttavia, che «siffatta rescissione dev'essere considerata, conformemente all'art. 4, n. 2, della direttiva 77/187, come una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro a scapito del lavoratore, direttamente derivante dal trasferimento, con la conseguenza che la cessazione dei detti contratti di lavoro deve, in siffatta ipotesi, considerarsi intervenuta per fatto imputabile al datore di lavoro» (52).
99. Trasponendo questo ragionamento alla causa in esame, la Corte ritiene che «lo stesso deve valere quando, (...), l'applicazione delle norme nazionali che disciplinano la situazione dei dipendenti dello Stato comporta la riduzione della retribuzione dei lavoratori interessati dal trasferimento. Questa riduzione, quando è sostanziale, dev'essere considerata come una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro a scapito dei lavoratori di cui trattasi, ai sensi dell'art. 4, n. 2, della direttiva (77/187)» (53).
100. L'ammissione da parte della Corte di tale possibilità in capo alle amministrazioni pubbliche è stata tuttavia, successivamente, attenuata, laddove essa ha precisato che «le autorità competenti incaricate di applicare e di interpretare il diritto nazionale relativo al pubblico impiego sono tenute a farlo in tutta la misura possibile alla luce dello scopo della direttiva 77/187». In quest'ottica, la Corte osserva che «sarebbe contrario allo spirito di questa direttiva trattare il dipendente che proviene dal cedente non tenendo conto della sua anzianità se le norme nazionali che disciplinano la situazione dei dipendenti dello Stato prendono in considerazione l'anzianità del dipendente dello Stato per il calcolo della sua retribuzione» (54).
101. Le sentenze Collino e Chiappero e Delahaye, citate supra, possono, del resto, sembrare difficili da conciliare, in quanto adottano due logiche diverse. Mentre la prima poggia sull'idea di un'equivalenza della tutela dei lavoratori in caso di trasferimento d'impresa, la seconda pone l'accento sulla parità di trattamento tra il personale trasferito e il personale già al servizio presso il cessionario.
102. Se la parità di trattamento tra il personale trasferito e il personale già al servizio del cessionario è auspicabile in caso di trasferimento d'impresa, non penso, tuttavia, che la direttiva 77/187 la imponga. Mi sembra, dunque, più conforme allo spirito di questa direttiva seguire il criterio fondato sull'equivalenza della tutela inerente al meccanismo di surrogazione, accolto dalla Corte nella menzioanta sentenza Collino e Chiappero.
103. Da tutti i suesposti elementi desumo che, in una fattispecie come quella oggetto dellla causa principale, dove, da un lato, le condizioni retributive previste dal contratto collettivo in vigore presso il cedente non siano principalmente fondate sul criterio dell'anzianità maturata presso tale datore di lavoro e, d'altro lato, il contratto collettivo vigente nei confronti del cessionario sostituisca quello precedentemente vigente nei confronti del cedente, l'art. 3, nn. 1 e 2, della direttiva 77/187 debba essere interpretato nel senso che esso non esiga che il cessionario tenga conto, ai fini del calcolo della retribuzione del personale trasferito, dell'anzianità maturata presso il cedente dal personale medesimo ciò sebbene il contratto collettivo vigente nei confronti del cessionario preveda che il calcolo della retribuzione sia principalmente basato sul criterio dell'anzianità.
C - Sulla quarta questione
104. Con la sua quarta questione il giudice del rinvio chiede se taluni principi generali di diritto dell'Unione ostino all'adozione, ad opera di uno Stato membro, di una disposizione nazionale come quella dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005.
105. Si deve ricordare il contesto in cui si pone tale questione. Adottando l'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005, il legislatore italiano intendeva precisare la portata che voleva dare alla legge n. 124/99 per quanto concerne il punto se il trasferimento del personale ATA dovesse andare di pari passo con la presa in considerazione da parte dello Stato dell'intera anzianità maturata da detto personale presso gli enti locali. Prendendo una direzione opposta alla giurisprudenza sviluppata dalla Corte suprema di cassazione, il legislatore italiano ha ritenuto che la retribuzione del personale trasferito dovesse essere stabilita «sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all'atto del trasferimento, con l'attribuzione della posizione stipendiale di importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999 costituito dallo stipendio, dalla retribuzione individuale di anzianità nonché da eventuali indennità, ove spettanti, previste dai (CCNL del personale degli enti locali), vigenti alla data dell'inquadramento». Il legislatore medesimo ha anche precisato che, malgrado l'interpretazione dominante adottata dai giudici nazionali, la legge n. 124/99 non doveva intendersi nel senso che fondava il calcolo della retribuzione del personale trasferito sul criterio dell'anzianità maturata presso gli enti locali.
106. Abbiamo visto che questa posizione del legislatore italiano, a mio avviso, non può essere considerata come contraria alla direttiva 77/187, in quanto detta direttiva non impone, in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale, di tenere in conto l'intera anzianità in precedenza maturata dal personale trasferito presso gli enti locali.
107. Atteso che l'interpretazione della legge n. 124/99, di cui all'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005, produce un effetto immediato su tutta una serie di procedimenti giurisdizionali in corso, tra cui quello avviato dalla sig.ra S., in senso favorevole alla posizione difesa dallo Stato italiano, il giudice del rinvio si interroga anche sulla circostanza se tale intervento del legislatore italiano sia o meno conforme ai principi generali di diritto dell'Unione. Sia dalla decisione di rinvio, sia dalle osservazioni presentate alla Corte nelle fasi scritta e orale, emerge che detta questione concerne, in primo luogo, l'interpretazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva e, segnatamente, il diritto ad un processo equo (55).
108. Conformemente ad una giurisprudenza constante, il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale di diritto dell'Unione, che discende dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che è stato sancito agli artt. 6 e 13 della CEDU (56). Questo principio è stato riaffermato all'art. 47 della Carta che, dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, ha acquisito «il medesimo valore giuridico dei trattati» (57). Considerato che la Carta occupa, attualmente, una posizione centrale nel sistema di tutela dei diritti fondamentali in seno all'Unione, essa deve costituire, a mio avviso, la norma di riferimento ogniqualvolta la Corte sia chiamata a pronunciarsi sulla conformità di un atto dell'Unione o di una disposizione nazionale con i diritti fondamentali tutelati dalla Carta stessa (58).
109. Prima di fornire, se del caso, al giudice del rinvio gli elementi che gli consentiranno di valutare la conformità dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 all'art. 47 della Carta, occorre verificare se la Corte sia competente a farlo.
1. Sulla competenza della Corte a risolvere la quarta questione
110. A seconda del tipo di fattispecie che le viene sottoposta (59), la Corte impone agli Stati membri di rispettare i diritti fondamentali tutelati nell'ordinamento giuridico comunitario, da una parte, allorché detti Stati danno attuazione al diritto dell'Unione e, dall'altra, quando una normativa nazionale ricade nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione.
111. Pertanto, secondo la giurisprudenza della Corte, i doveri inerenti alla tutela dei principi generali riconosciuti nell'ordinamento giuridico comunitario, tra i quali vanno annoverati i diritti fondamentali, vincolano parimenti gli Stati membri quando danno esecuzione alle normative comunitarie e, quindi, questi sono tenuti, quanto più possibile, ad applicare queste normative in condizioni tali da non violare detti doveri (60).
112. In tal senso, secondo giurisprudenza costante, qualora una normativa nazionale rientri nel campo di applicazione del diritto comunitario, la Corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari per la valutazione, da parte del giudice nazionale, della conformità di tale normativa con i diritti fondamentali di cui la Corte assicura il rispetto, quali risultano, in particolare, dalla Convenzione (61). Per contro, la Corte non dispone di tale competenza con riguardo ad una normativa che non si colloca nell'ambito del diritto comunitario e qualora l'oggetto della controversia non presenti alcun elemento di collegamento con il diritto comunitario (62).
113. Tenuto conto della soluzione che propongo alla Corte di dare alla prima questione, vale a dire che il trasferimento de quo costituisce un trasferimento d'impresa ai sensi della direttiva 77/187 e deve, dunque, avere luogo conformemente alle norme enunciate dalla direttiva medesima (come trasposte dall'art. 2112 del Codice Civile italiano e dall'art. 34 del decreto legislativo 29/93), la causa in esame si discosta nettamente dalle fattispecie che hanno dato luogo a decisioni nelle quali la Corte si è dichiarata incompetente ad interpretare principi generali e diritti fondamentali sulla base del rilievo che la controversia non presentava un collegamento sufficiente con il diritto dell'Unione (63).
114. Infatti, la legge n. 124/99, come precisata dal legislatore italiano nel 2005, è volta a definire una delle modalità di trasferimento del personale ATA dagli enti locali allo Stato, vale a dire la modalità di calcolo della loro retribuzione a seguito del trasferimento. Atteso che si tratta di un trasferimento che rientra nell'ambito di applicazione della direttiva 77/187, tale normativa deve essere considerata nel senso che presenta un sufficiente collegamento con il diritto dell'Unione. Dato che la normativa nazionale contestata si inserisce perfettamente nell'ambito del diritto dell'Unione, la Corte è competente per fornire al giudice nazionale gli elementi necessari per valutare la compatibilità di detta normativa con il principio dell'effettività della tutela giurisdizionale (64).
115. A mio avviso, ciò vale anche con riguardo all'art. 47 della Carta.
116. Sappiamo che, al fine di delimitare l'ambito di applicazione della Carta, i redattori della stessa hanno adottato la formula ripresa dalla sentenza Wachauf, citata supra (65). L'art. 51, n. 1, della Carta prevede, dunque, che le disposizioni della medesima di rivolgono agli Stati membri «soltanto allorché danno attuazione al diritto dell'Unione».
117. Alla luce del tenore di tale disposizione, la questione se l'ambito di applicazione della Carta, come definito all'art. 51, comma 1, della medesima, coincida con quello dei principi generali del diritto dell'Unione è tuttora dibattuta e non trova ancora una risposta certa nella giurisprudenza della Corte (66). Mentre i sostenitori di una concezione restrittiva della nozione di attuazione del diritto dell'Unione sostengono che questa riguardi soltanto la situazione in cui uno Stato membro agisca come agente dell'Unione, i sostenitori di una concezione più estesa ritengono che detta nozione si riferisca più ampiamente alla situazione in cui una normativa nazionale rientri nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione.
118. A mio avviso, la formula adottata dai redattori della Carta non significa che essi abbiano inteso restringere il campo d'applicazione della medesima rispetto alla definizione iure praetorio del campo di applicazione dei principi generali del diritto dell'Unione. Lo testimoniano le precisazioni relative all'art. 51, n. 1, della Carta le quali, conformemente all'art. 6, n. 1, ultimo comma, TUE e all'art. 52, n. 7, della Carta, devono essere prese in considerazione per l'interpretazione della medesima.
119. Osservo, a questo riguardo, che dette spiegazioni indicano che, per quanto concerne gli Stati membri, «dalla giurisprudenza della Corte risulta senza ambiguità che l'obbligo di rispettare i diritti fondamentali definiti nell'ambito dell'Unione s'impone agli Stati sono se agiscono nel campo di applicazione del diritto dell'Unione». Peraltro, queste stesse spiegazioni concernono la giurisprudenza relativa ai diversi casi di collegamento di una normativa nazionale con il diritto dell'Unione evocati in precedenza. A mio avviso, questi due elementi consentono alla Corte di adottare un'interpretazione estensiva dell'art. 51, paragrafo 1, della Carta senza snaturare l'intenzione dei redattori della stessa (67). Si potrebbe quindi riconoscere che questo articolo, letto alla luce delle spiegazioni che lo riguardano, debba essere interpretato nel senso che le disposizioni della Carta si rivolgono agli Stati membri quando essi agiscono nel campo di applicazione del diritto dell'Unione. Peraltro, se ci si riferisce al caso particolare delle direttive, è meglio non circoscrivere la nozione di attuazione del diritto dell'Unione alle sole misure di trasposizione delle medesime. Detta nozione, a mio avviso, deve essere intesa come riguardante le applicazioni ulteriori e concrete enunciate da una direttiva, (68), nonché, in modo generale, tutte le situazioni nelle quali una normativa nazionale «affronta» o «incide su» una materia disciplinata da una direttiva il cui termine di trasposizione è scaduto (69).
120. Oltre al fatto che una restrizione del campo di applicazione della Carta rispetto a quello dei diritti fondamentali riconosciuti in quanto principi generali di diritto dell'Unione, a mio avviso, non era nelle intenzioni dei suoi redattori, un'interpretazione restrittiva dell'art. 51, comma 1, della Carta non sembra auspicabile. Essa, infatti, finirebbe per creare due regimi diversi di tutela dei diritti fondamentali in seno all'Unione, a seconda che questi derivino dalla Carta o dai principi generali di diritto. Ciò indebolirebbe il livello di tutela di questi diritti, il che potrebbe apparire in contrasto con la lettera dell'art. 53 della Carta stessa che prevede, segnatamente, che «(n)essuna disposizione della (presente) Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell'Unione».
121. Atteso che la competenza della Corte per risolvere la quarta questione mi sembra accertata, occorre adesso fornire al giudice del rinvio gli elementi che gli consentiranno di valutare la conformità dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 con l'art. 47 della Carta.
2. Sull'interpretazione dell'art. 47 della Carta
122. Come confermato dall'art. 47 della Carta, il diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale effettiva comprende il diritto ad un ricorso effettivo, che garantisca al ricorrente, segnatamente, che la sua causa sia esaminata equamente. Posto che l'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 incide sul procedimento giurisdizionale avviato dalla sig.ra S., in particolare in favore dello Stato italiano, il diritto della medesima ad un ricorso effettivo può risultare pregiudicato.
123. Occorre, tuttavia, rammentare che l'art. 52, n. 1, della Carta consente che possano essere apportate limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà sanciti da quest'ultima, purché tali limitazioni siano previste dalla legge, rispettino il contenuto essenziale di detti diritti e libertà e, nel rispetto del principio di proporzionalità, siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.
124. Inoltre, dall'art. 52, n. 3, della Carta emerge che, laddove essa contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione (70). Secondo l'interpretazione di tale disposizione, il senso e la portata dei diritti garantiti sono determinati non soltanto dal testo della CEDU, ma anche, segnatamente, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo.
125. Al fine di fornire al giudice del rinvio gli elementi necessari per consentirgli di valutare la conformità dell'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 con l'art. 47 della Carta, seguirò lo schema di analisi elaborato dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo in casi analoghi di violazione dell'art. 6, n. 1, CEDU per effetto dell'impatto di una legge retroattiva su procedimenti giudiziari pendenti.
126. Esaminerò anche, in un primo momento, se sussista un'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia. In caso affermativo, si dovrà verificare, in un secondo momento, se esista un motivo imperativo di interesse generale che giustifichi tale ingerenza.
a) Sulla sussistenza di un'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia
127. Come precisato dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo nella sua sentenza Zielinski e Pradal & Gonzalez e altri c. Francia, 28 ottobre 1999 (71), «se, in linea di principio, il potere legislativo ha la facoltà di disciplinare in materia civile, con nuove disposizioni con efficacia retroattiva, diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall'art. 6 (CEDU) ostano, salvo per motivi imperativi di interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia al fine di influenzare la soluzione della controversia» (72).
128. Da questa sentenza consegue che la prima tappa dell'esame della compatibilità di una legge retroattiva con l'art. 6, n. 1, CEDU è l'esistenza di un'incidenza su controversie pendenti dinanzi ad un giudice.
129. Nella sentenza Lilly France c. Francia, 25 novembre 2010, la Corte europea dei diritti dell'Uomo ha rammentato che essa si limita ad accertare se la legge controversa abbia impedito ad un giudice di pronunciarsi sulla controversia in esame (73). Nella sentenza Zielinski e Pradal & Gonzalez e altri c. Francia, citata supra, essa ha sottolineato che la legge controversa fissa definitivamente i termini della discussione sottoposta ai giudici dell'ordinamento giudiziario, e lo fa in modo retroattivo (74). La competenza del giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia risulta, dunque, esclusa a vantaggio dell'interpretazione data dal legislatore nazionale. Quand'anche quest'ultimo si fosse preoccupato di escludere l'applicazione della legge retroattiva alle decisioni divenute definitive, l'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia è accertata posto che il giudice è vincolato dalla lettera del testo.
130. Nel contesto della causa principale, l'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 dà un'interpretazione dell'art. 8, n. 2, della legge n. 124/99 i cui effetti sono retroattivi «fatta salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».
131. Sembra quindi sussistere la condizione di un'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia. È infatti pacifico che la nuova interpretazione legislativa ha un impatto diretto sul procedimento che oppone la sig.ra S. allo Stato, a sfavore della ricorrente, in quanto la legge interpretativa esclude l'interpretazione favorevole al personale trasferito che la Corte suprema di cassazione e la maggior parte dei giudici di merito avevano in precedenza adottato. Poco importa, al riguardo, che l'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 sia inteso come una norma di interpretazione autentica o come una norma con un contenuto innovativo.
132. Occorre ora verificare se tale ingerenza possa essere considerata come giustificata da un motivo imperativo di interesse generale.
b) Sull'esistenza di un motivo imperativo di interesse generale a giustificazione dell'ingerenza
133. In via generale, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo tende ad escludere il motivo finanziario come idoneo a giustificare, di per sé, un'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia (75). Tuttavia, nella sentenza National & Provincial Building Society, the Leeds Permanent Building Society e the Yorkshire Building Society c. Regno Unito del 23 ottobre 1997 (76), la Corte europea dei diritti dell'Uomo ha ritenuto che la preoccupazione dello Stato di mantenere il livello di gettito fiscale costituisca un motivo d'interesse generale (77). È interessante osservare che, in quest'ultima causa, la legge retroattiva aveva l'obiettivo di ristabilire l'intenzione iniziale del legislatore e a correggere vizi di ordine tecnico nella redazione della normativa (78). Invece, nella sua sentenza OGIS-Institut Stanislas, OGEC St. Pie X e Blanche de Castille ed altri c. Francia del 27 maggio 2004, si trattava di colmare una lacuna normativa (79).
134. Da questa giurisprudenza emerge che la Corte europea dei diritti dell'Uomo tende ad accettare l'esistenza di un motivo di interesse generale allorché si tratti di ottenere una buona legislazione (comprendente, segnatamente, la rettificazione di un errore tecnico e l'eliminazione di una lacuna giuridica) o di favorire la realizzazione di un progetto di generale convenienza (80). Il motivo finanziario, di per sé, non è sufficiente, ma può essere accolto se accompagnato da un'altra finalità d'interesse generale.
135. Nella causa in esame, il governo italiano giustifica l'intervento della legge n. 266/2005 con il fatto che la formulazione dell'art. 8, n. 2, della legge n. 124/99 era incerta e che aveva dato adito ad un abbondante contenzioso. Tale giustificazione potrebbe essere assimilata a quella volta ad ottenere una buona legislazione, vale a dire una legislazione di cui viene chiarita la portata.
136. Per quanto riguarda, invece, l'argomento secondo il quale si deve porre fine a controversie giurisprudenziali, al di là del fatto che tali controversie devono essere dimostrate, va osservato che la Corte europea dei diritti dell'Uomo è reticente ad ammetterlo. Infatti, nella sua sentenza Zielinski e Pradal & Gonzalez e altri c. Francia, citata supra, detta Corte ha dichiarato che divergenze di giurisprudenza sono inerenti ad ogni ordinamento giudiziario. Agli occhi di quella Corte, dunque, questo argomento non è di per sé rilevante.
137. Se è dimostrato che il legislatore italiano nel 1999 ha inteso lasciare alle parti sociali e al potere regolamentare il compito di realizzare le modalità concrete dell'incorporazione del personale trasferito, segnatamente per quanto concerne la retribuzione del medesimo successivamente al trasferimento, potrebbe accettarsi un ulteriore intervento di questo stesso legislatore destinato a porre fine ad una giurisprudenza non corrispondente né all'intenzione iniziale del legislatore medesimo, né alle modalità di applicazione definite dalle parti sociali, e quindi convalidate dal potere regolamentare. Osservo, in merito, che le precisazioni fornite dal legislatore nel 2005 confermano l'interpretazione adottata dalle parti sociali a seguito della legge n. 124/99, che hanno stabilito, come le invitava a fare il decreto ministeriale 23 luglio 1999, i criteri di incorporazione del personale trasferito. Si potrebbe dunque ammettere, come riconosciuto dalla stessa Corte suprema di cassazione con sentenza 16 gennaio 2008 (81), che le precisazioni apportate dal legislatore italiano nel 2005, relative alla base del calcolo del trattamento annuale del personale trasferito, corrispondevano ad una delle possibili modalità del riconoscimento, sotto il profilo economico e sociale, dell'anzianità maturata. Il legislatore italiano ha dunque optato per un riconoscimento parziale dell'anzianità fondandosi, per l'inquadramento del personale trasferito, sulla retribuzione percepita dal medesimo il 31 dicembre 1999.
138. Al fine di giustificare tale scelta, il governo italiano fa valere il motivo relativo alla necessità di garantire la neutralità economica dell'operazione di trasferimento.
139. Può sembrare legittimo che lo Stato italiano abbia inteso raggruppare in un unico corpo il personale ATA che lavorava insieme, ma che era soggetto a due regimi diversi e, in particolare, che abbia voluto uniformare le condizioni di retribuzione di detto personale facendo in modo che, allo stesso tempo, tale operazione risultasse neutra sotto il profilo economico, vale a dire, in altri termini, che fosse realizzata a parità di costi.
140. Occorre tuttavia che il governo italiano dimostri che l'imperativo della neutralità di bilancio fosse ciò su cui verteva la riforma iniziale e che l'intervento del legislatore nel 2005 mirasse a salvaguardare detto obiettivo. Segnatamente, spetta a dettol governo dimostrare che solo l'interpretazione fondata su una considerazione soltanto parziale dell'anzianità fosse idonea a garantire la neutralità economica della riforma.
141. Osservo che, dinanzi alla Corte, il governo italiano ha fatto valere che la riforma avviata nel 1999, accompagnata dalla presa in considerazione solo parziale dell'anzianità del personale trasferito, non ha pregiudicato la situazione economica del personale medesimo. A fronte di tale affermazione la sig.ra S., a mio avviso, non è riuscita a dimostrare in modo rigoroso e certo che la situazione economica del personale trasferito fosse peggiorata a seguito del trasferimento (82). Gli elementi di cui dispongo non riescono, dunque, a convincermi che l'intervento del legislatore nel 2005 avesse uno scopo diverso da quello di garantire la neutralità di bilancio della riforma.
142. Spetta al giudice del rinvio, in definitiva, verificare, in particolare sulla base di dati numerici relativi ai costi comparati delle due interpretazioni sostenute (83), che l'interpretazione adottata dal legislatore italiano nel 2005 fosse idonea a perseguire l'obiettivo legittimo di neutralità di bilancio di una riforma amministrativa come quella in causa nel procedimento principale e che essa non abbia arrecato un pregiudizio sproporzionato al diritto tutelato dall'art. 47 della Carta.
143. Da questi elementi desumo che l'art. 47 della Carta deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una disposizione legislativa come quella contenuta all'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005, a condizione che risulti dimostrato, segnatamente sul fondamento di dati numerici, che l'adozione della medesima mirasse a garantire la neutralità economica dell'operazione di trasferimento del personale ATA dagli enti locali allo Stato, ciò che spetta al giudice del rinvio verificare.
IV - Conclusione
144. Alla luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di risolvere nei termini seguenti le questioni pregiudiziali sottopostele dal Tribunale ordinario di Venezia:
«1) La direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, deve essere interpretata nel senso che essa si applica ad un trasferimento come quello in esame nel procedimento principale, ossia il trasferimento del personale addetto ai servizi ausiliari di pulizia, di manutenzione e di vigilanza degli edifici scolastici dello Stato dagli enti pubblici locali (comuni e province) allo Stato.
2) In una fattispecie come quella del procedimento principale, dove, da un lato, le condizioni retributive previste dal contratto collettivo in vigore nei confronti del cedente non sono principalmente fondate sul criterio dell'anzianità maturata nei confronti di detto datore di lavoro, e, dall'altro, il contratto collettivo in vigore nei confronti del cessionario sostituisce quello che era in vigore nei confronti del cedente, l'art. 3, nn. 1 e 2, della direttiva 77/187 deve essere interpretato nel senso che esso non esige che il cessionario tenga conto, ai fini del calcolo della retribuzione del personale trasferito, dell'anzianità maturata, presso il cedente, dal personale medesimo e ciò anche nel caso in cui il contratto collettivo in vigore nei confronti del cessionario preveda che il calcolo della retribuzione sia principalmente fondato sul criterio dell'anzianità.
3) L'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una disposizione di legge come quella di cui all'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006), a condizione che sia dimostrato, segnatamente sulla base di dati numerici, che l'adozione della medesima mirasse a garantire la neutralità di bilancio dell'operazione di trasferimento del personale ATA dagli enti locali allo Stato, cosa che deve essere verificata dal giudice del rinvio».
_______________________
(1) - Lingua originale: il francese.
(2) - GU L 61, pag. 26.
(3) - In prosieguo: la «Carta».
(4) - GU L 201, pag. 88.
(5) -V., segnatamente, per analogia, sentenze 20 novembre 2003, causa C-340/01, Abler e a. (Racc. pag. I-14023, punto 5), e 9 marzo 2006, causa C-499/04, Werhof (Racc. pag. I-2397, punti 15 e 16).
(6) - (GU L 82, pag. 16).
(7) - Supplemento ordinario alla GURI n. 30, del 6 febbraio 1993, in prosieguo: il «decreto legislativo n. 29/93».
(8) - GURI n. 107, del 10 maggio 1999; in prosieguo: la «legge n. 124/99».
(9) - GURI n. 16, del 21 gennaio 2000; in prosieguo: il «decreto ministeriale del 23 luglio 1999».
(10) - (GURI n. 162, del 14 luglio 2001; in prosieguo: il «decreto ministeriale 5 aprile 2001»).
(11) - Supplemento ordinario alla GURI n. 302, del 29 dicembre 2005; in prosieguo: la «legge n. 266/2005».
(12) - GURI del 4 luglio 2007.
(13) - GURI del 2 dicembre 2009.
(14) - GURI del 18 giugno 2008.
(15) -Causa C-298/94, Racc, pag. I-4989.
(16) - Punto 14.
(17) - Rispettivamente, punti 13 e 15.
(18) - Punto 16.
(19) - Punto 17. Come rilevato dall'avvocato generale Alber al paragrafo 49 delle conclusioni nella causa definita dalla sentenza 14 settembre 2000, causa C-343/98, Collino e Chiappero (Racc. pag. I-6659), «Nella sua motivazione la Corte di giustizia si è basata soprattutto sul fatto che la ristrutturazione non riguardava attività economiche. Se ne può concludere che l'ambito d'applicazione della direttiva (77/187) non dipende dal cedente e dalla sua appartenenza al diritto pubblico o al diritto privato, sempreché questi eserciti un'attività economica. Decisiva quindi non è la qualità del cedente, bensì il tipo di attività esercitata. Attività che implicano l'esercizio dei pubblici poteri non possono essere oggetto di un trasferimento d'impresa ai sensi d(i questa) direttiva».
(20) - V., segnatamente, sentenze 10 dicembre 1998, cause riunite C-173/96 e C-247/96, Hidalgo e a. (Racc. pag. I-8237, punto 24), per un'attività di assistenza a domicilio di persone disabili e per un'attività di sorveglianza; Collino e Chiappero, cit. (punti 31 e 32), nonché 26 settembre 2000, causa C-175/99, Mayeur (Racc. pag. I-7755, punti 28-40).
(21) - Causa C-151/09, non ancora pubblicata nella Raccolta.
(22) - Punto 12.
(23) -Causa C-463/09, non ancora pubblicata nella Raccolta.
(24) - Punto 11.
(25) - Sentenze cit. UGT-FSP (punto 23 e giurisprudenza citata), e CLECE (punto 26 e giurisprudenza citata).
(26) - Sentenza CLECE, cit. (punto 29 e giurisprudenza citata).
(27) - Ibidem (punto 30 e giurisprudenza citata).
(28) - V., a questo riguardo, sentenza Collino e Chiappero, cit. (punto 34 e giurisprudenza citata).
(29) - Sentenza CLECE, cit. (punto 34 e giurisprudenza citata).
(30) - Ibidem (punto 35 e giurisprudenza citata).
(31) - Ibidem (punto 36 e giurisprudenza citata).
(32) - Ibidem (punto 39 e giurisprudenza).
(33) - A contrario, l'identità di un'entità economica che sia fondata essenzialmente sulla mano d'opera non può essere conservata qualora la parte più rilevante del personale di tale entità non venga riassunta dal cessionario (v. sentenza CLECE, cit., punto 41).
(34) - V. sentenza 11 luglio 1985, causa 105/84, Foreningen af Arbejdsledere i Danmark (Racc. pag. 2639, punti 26 e 27).
(35) - V. pag. 13 della versione in lingua francese della decisione di rinvio.
(36) - Sentenza Werhof, cit. (punto 28).
(37) - V., a questo riguardo, Moizard, N., «Droit social de l'Union européenne», Jurisclasseur Europe, 2010, fascicolo 607, per cui la circostanza che l'art. 3, n. 2, della direttiva 77/187 concerne «l'applicazione di un altro contratto collettivo» significa che, «quando un altro contratto collettivo si applica presso il cessionario, questo si sostituisce immediatamente al contratto dello stesso livello che disciplinava inizialmente l'entità ceduta » (punto 33).
(38) - V., in tal senso, sentenza 6 novembre 2003, causa C-4/01, Martin e a. (Racc. pag. I-12859, punto 47).
(39) -Sentenza 27 novembre 2008, causa C-396/07, Juuri (Racc. pag. I-8883, punto 33).
(40) - Ibidem (punto 34).
(41) - Se taluni elementi della retribuzione previsti dal CCNL del personale degli enti locali sono stati mantenuti dal legislatore italiano, ciò è avvenuto, quindi, non per un obbligo imposto dalla direttiva 77/187, ma per la sola volontà del legislatore medesimo (si tratta della prestazione individuale di anzianità e di tre altre indennità).
(42) - Punto 50.
(43) - Idem.
(44) - Punto 51.
(45) - Punto 52.
(46) - V. paragrafo 94 delle conclusioni dell'avvocato generale Alber nella causa definita dalla sentenza Collino e Chiappero, cit..
(47) - Causa 324/86, Racc. pag. 739.
(48) - Punto 16.
(49) -Causa C-425/02, Racc. pag. I-10823.
(50) - Ella faceva presente di essere stata inquadrata, senza tenere conto della sua anzianità, nel grado 1, ultimo scatto, della tabella delle retribuzioni, il che ha avuto la conseguenza di farle perdere il 37% della sua retribuzione mensile (punto 17 della sentenza).
(51) - Sentenza Delahaye, cit. (punto 32).
(52) - Idem.
(53) - Ibidem (punto 33).
(54) - Ci si può chiedere se ciò significhi che non si può totalmente prescindere dall'anzianità maturata presso il primo datore di lavoro.
(55) - Si deve precisare che la Corte europea dei diritti dell'uomo è stata parallelamente investita di un problema analogo, in forza dell'art. 6, n. 1, della CEDU, con tre domande. Si tratta delle domande nn. 43549/08, Agrati e altri c. Italia; 5087/09, Carlucci c. Italia, nonché 6107/09, Cioffi e altri, c. Italia. Il 5 novembre 2009, la seconda sezione della Corte europea dei diritti dell'Uomo ha rivolto alle parti le questioni che seguono:
«1. Se l'applicazione dell'art. 1 della (legge n. 266/2005) ad un procedimento già pendente dinanzi ai giudici abbia pregiudicato la preminenza del diritto o l'equità del procedimento, quali garantite dall'art. 6 della CEDU.
2. In caso affermativo, se detta ingerenza fosse giustificata da motivi imperativi di interesse generale e fosse sufficientemente proporzionata agli obiettivi perseguiti dal legislatore.
3. Tenuto conto dell'art. 1 della (legge n. 266/2005) e della sua applicazione ad opera dei giudici nazionali in un procedimento già in corso, se sia stato pregiudicato il diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni, ai sensi dell'art. 1 del Protocollo n. 1 (alla CEDU)».
(56) - V., segnatamente, sentenza 22 dicembre 2010, causa C-279/09, DEB Deutsche Energiehandels-und Beratungsgesellschaft (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 29, e giurisprudenza citata).
(57) - V. art. 6, comma 1, n. 1, TUE.
(58) -V., in tal senso, per quanto attiene alla valutazione della validità di un atto dell'Unione, sentenza 9 novembre 2010, cause riunite C-92/09 e C-93/09,, Volker und Markus Schecke e Hactmut Eifert (non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 45 e 46).
(59) - A seconda che uno Stato membro agisca in quanto «agente dell'Unione», adottando le disposizioni nazionali imposte da una normativa comunitaria, che adotti una normativa nazionale derogante alla libertà di circolazione riconosciuta dal trattato oppure, in senso più ampio, che miri a realizzare l'obiettivo perseguito da una normativa comunitaria adottando le norme nazionali che gli sembrino necessarie a tal fine. Per illustrare queste tre fattispecie, v., segnatamente e rispettivamente, sentenze 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf (Racc. pag. 2609); 18 giugno 1991, causa C-260/89, ERT (Racc. pag. I-2925), nonché 10 luglio 2003, cause riunite C-20/00 e C-64/00, Booker Aquaculture e Hydro Seafood (Racc. pag. I-7411).
(60) - V., segnatamente, sentenza 27 giugno 2006, causa C-540/03, Parlamento/Consiglio (Racc. pag. I-5769, punto 105 e giurisprudenza citata).
(61) -V., segnatamente, sentenza 10 aprile 2003, causa C-276/01, Steffensen (Racc. pag. I-3735, punto 70 e giurisprudenza citata).
(62) - V., segnatamente, ordinanza 27 novembre 2009, causa C-333/09, Noël, (punto 11 e giurisprudenza citata).
(63) -V., segnatamente, sentenze 13 giugno 1996, causa C-144/95, Maurin (Racc. pag. I-2909), e 18 dicembre 1997, causa C-309/96, Annibaldi (Racc. pag. I-7493), nonché ordinanze 6 ottobre 2005, causa C-328/04, Vajnai (Racc. pag. I-8577); 25 gennaio 2007, causa C-302/06, Koval'ský, e 12 novembre 2010, causa C-339/10, Asparuhov Estov e a. (non ancora pubblicata nella Raccolta).
(64) - Ovviamente, l'esistenza di un elemento di collegamento sufficiente con il diritto dell'Unione deve chiaramente emergere dalla decisione di rinvio. In mancanza di tale dimostrazione, la Corte si dichiarerà manifestamente incompetente, come avvenuto in una causa analoga a quella in esame, con l'ordinanza 3 ottobre 2008, causa C-287/08, Savia e a.
(66) - V., segnatamente, su tale questione, Lenaerts, K., e Gutiérrez-Fons, J. A., «The constitutional allocation of powers and general principles of EU law», Common Market Law Review, 2010, n. 47, pag. 1629, specialmente pagg. 1657-1660; Tridimas, T., «The General Principles of EU Law», 2a edizione, Oxford University Press, 2006, pag. 363; Egger, A., «EU-Fundamental Rights in the National Legal Order: The Obligations of Member States Revisited», Yearbook of European Law, vol. 25, 2006, pag. 515, in particolare pagg. 547-550, e Jacqué, J. P., «La Charte des droits fondamentaux de l'Union européenne: aspects juridiques généraux», REDP, vol. 14, n. 1, 2002, pag. 107, in particolare pag. 111.
(67) - V. Rosas, A. e Kaila, H., «L'application de la Charte des droits fondamentaux de l'Union européenne par la Cour de justice - un premier bilan», Il Diritto dell'Unione euroepa, 1/2011.
Questi autori, riferendosi alle spiegazioni relative alla Carta e sottolineando che la questione è discussa in dottrina, ritengono che possa sostenersi che l'espressione «quando attuano il diritto dell'Unione», utilizzata all'art. 51, comma 1, della Carta «esiga un'interpretazione piuttosto ampia». A loro avviso, «ciò che importa sarebbe, segnatamente, alla luce della giurisprudenza della Corte, l'esistenza di un elemento di collegamento a questo diritto». Osservo anche che, nell'ordinanza Asparuhov Estov e a., cit., la Corte rileva che la sua competenza per interpretare la Carta non è stabilita allorché la decisione di rinvio non contenga alcun elemento che dimostri che la decisione nazionale in causa «costituisce una misura di attuazione del diritto dell'Unione o che essa presenta altri elementi di collegamento a quest'ultimo» (punto 14). Questo riferimento ad «altri elementi di collegamento» al diritto dell'Unione depone piuttosto a favore di una concezione ampia ad opera della Corte quanto alla sua competenza ad interpretare la Carta.
(68) - Sentenza 23 novembre 2010, causa C-145/09, Tsakouridis (non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 50-52).
(69) - Sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Kücükdeveci (non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 22-26).
(70) - Detta disposizione non osta tuttavia a che il diritto dell'Unione attribuisca una tutela più estesa (v. art. 52, paragrafo 3, seconda frase, della Carta).
(71) - Recueil des arrêts et décisions 1999-VII.
(72) - § 57.
(73) - § 49.
(74) - § 58.
(75) - V., segnatamente, Corte europea diritti dell'Uomo, sentenze Lecarpentier e altro c. Francia, 14 febbraio 2006 (§ 47), nonché Cabourdin c. Francia, 11 aprile 2006 (§ 37).
(76) - Recueil des arrêts et décisions, 1997-VII.
(77) - § 80-83.
(78) - § 81.
(79) - § 71.
(80) - Voir Sudre, F., Marguénaud,
J.-P., Andriantsimbazovina, J., Gouttenoire, A., e Levinet, M., Les grands arrêts de la Cour européenne des droits de l'homme, 5e édition, PUF, Paris, 2009.
(81) - Sentenza n. 677 della sezione lavoro.
(82) - Dall'udienza che si è tenuta dinanzi alla Corte il 1^ febbraio 2011 emerge che le poche centinaia di euro che la sig.ra S. asseriva di avere perduto a seguito del trasferimento dovevano piuttosto intendersi come una perdita dell'aumento retributivo di cui ella avrebbe potuto beneficiare se fosse stata riconosciuta tutta l'anzianità da lei maturata. Peraltro, con riguardo all'eventuale perdita di indennità previste dal CCNL del personale degli enti locali, diverse da quelle di cui l'art. 1, comma 218, della legge n. 266/2005 prevedeva la proroga, nulla indica che esse non trovino globalmente un equivalente nel CCNL della scuola.
(83) - La necessità di detti dati numerici risulta, segnatamente, dalla sentenza Lilly France c. Francia, cit. supra (§ 51).
Il reato italiano di clandestinità al vaglio dell'Europa: respinto!
Martedì 14 Giugno 2011 14:15
Alberto Ingrao
SENTENZA DELLA CORTE (Prima Sezione) 28 aprile 2011
Spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia - Direttiva 2008/115/CE - Rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare - Artt. 15 e 16 - Normativa nazionale che prevede la reclusione per i cittadini di paesi terzi in soggiorno irregolare in caso di inottemperanza all'ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro - Compatibilità
Nel procedimento C-61/11 PPU,
avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 TFUE, proposta dalla Corte d'appello di Trento, con ordinanza 2 febbraio 2011, pervenuta in cancelleria il 10 febbraio 2011, nel procedimento penale a carico di
H. E., alias S. K.,
LA CORTE (Prima Sezione),
composta dal sig. A. Tizzano, presidente di sezione, dai sigg. J.-J. Kasel, M. Ilešic (relatore), E. Levits e M. Safjan, giudici,
avvocato generale: sig. J. Mazák
cancelliere: sig.ra A. Impellizzeri, amministratore
vista la domanda del giudice del rinvio del 2 febbraio 2011, pervenuta alla Corte il 10 febbraio 2011 e integrata l'11 febbraio 2011, di sottoporre il rinvio pregiudiziale a procedimento d'urgenza, a norma dell'art. 104 ter del regolamento di procedura della Corte,
vista la decisione della Prima Sezione del 17 febbraio 2011 di accogliere la suddetta domanda,
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 30 marzo 2011,
considerate le osservazioni presentate:
- per il sig. E., dagli avv.ti M. Pisani e L. Masera;
- per il governo italiano, dalla sig.ra G. Palmieri, in qualità di agente, assistita dal sig. L. D'Ascia, avvocato dello Stato;
- per la Commissione europea, dalla sig.ra M. Condou-Durande e dal sig. L. Prete, in qualità di agenti,
sentito l'avvocato generale,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli artt. 15 e 16 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU L 348).
2 Detta domanda è stata proposta nell'ambito di un procedimento a carico del sig. E., il quale è condannato alla pena di un anno di reclusione per il reato di permanenza irregolare sul territorio italiano, senza giustificato motivo, in violazione di un ordine di allontanamento emesso nei suoi confronti dal questore di Udine.
Contesto normativo
La normativa dell'Unione
3 I 'considerando' secondo, sesto, tredicesimo, sedicesimo e diciassettesimo della direttiva 2008/115 enunciano quanto segue:
«(2) Il Consiglio europeo di Bruxelles del 4 e 5 novembre 2004 ha sollecitato l'istituzione di un'efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinché le persone siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità.
(...)
(6) E' opportuno che gli Stati membri provvedano a porre fine al soggiorno irregolare dei cittadini di paesi terzi secondo una procedura equa e trasparente. (...)
(...)
(13) L'uso di misure coercitive dovrebbe essere espressamente subordinato al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti. (...)
(...)
(16) Il ricorso al trattenimento ai fini dell'allontanamento dovrebbe essere limitato e subordinato al principio di proporzionalità con riguardo ai mezzi impiegati e agli obiettivi perseguiti. Il trattenimento è giustificato soltanto per preparare il rimpatrio o effettuare l'allontanamento e se l'uso di misure meno coercitive è insufficiente.
(17) I cittadini di paesi terzi che sono trattenuti dovrebbero essere trattati in modo umano e dignitoso, nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e in conformità del diritto nazionale e internazionale. Fatto salvo l'arresto iniziale da parte delle autorità incaricate dell'applicazione della legge, disciplinato dal diritto nazionale, il trattenimento dovrebbe di norma avvenire presso gli appositi centri di permanenza temporanea».
4 L'art. 1 della direttiva 2008/115, rubricato «Oggetto», recita:
«La presente direttiva stabilisce norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti dell'uomo».
5 L'art. 2, nn. 1 e 2, di detta direttiva così dispone:
«1. La presente direttiva si applica ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro è irregolare.
2. Gli Stati membri possono decidere di non applicare la presente direttiva ai cittadini di paesi terzi:
(...)
b) sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale, o sottoposti a procedure di estradizione».
6 Ai sensi dell'art. 3, punto 4, della direttiva 2008/115 si intende per «decisione di rimpatrio», ai fini della medesima direttiva, «[una] decisione o [un] atto amministrativo o giudiziario che attesti o dichiari l'irregolarità del soggiorno di un cittadino di paesi terzi e imponga o attesti l'obbligo di rimpatrio».
7 L'art. 4, n. 3, di detta direttiva enuncia:
«La presente direttiva lascia impregiudicata la facoltà degli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alle persone cui si applica, purché compatibili con le norme in essa stabilite».
8 A termini dell'art. 6, n. 1, della medesima direttiva, « [g]li Stati membri adottano una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare, fatte salve le deroghe di cui ai paragrafi da 2 a 5».
9 L'art. 7 della direttiva 2008/115, rubricato «Partenza volontaria», prevede quanto segue:
«1. La decisione di rimpatrio fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni, fatte salve le deroghe di cui ai paragrafi 2 e 4. Gli Stati membri possono prevedere nella legislazione nazionale che tale periodo sia concesso unicamente su richiesta del cittadino di un paese terzo interessato. In tal caso, gli Stati membri informano i cittadini di paesi terzi interessati della possibilità di inoltrare tale richiesta.
(...)
3. Per la durata del periodo per la partenza volontaria possono essere imposti obblighi diretti a evitare il rischio di fuga, come l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria adeguata, la consegna di documenti o l'obbligo di dimorare in un determinato luogo.
4. Se sussiste il rischio di fuga o se una domanda di soggiorno regolare è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o se l'interessato costituisce un pericolo per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale, gli Stati membri possono astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni».
10 L'art. 8, nn. 1 e 4, di detta direttiva così dispone:
«1. Gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria a norma dell'articolo 7, paragrafo 4, o per mancato adempimento dell'obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria concesso a norma dell'articolo 7.
(...)
4. Ove gli Stati membri ricorrano - in ultima istanza - a misure coercitive per allontanare un cittadino di un paese terzo che oppone resistenza, tali misure sono proporzionate e non ecced[o]no un uso ragionevole della forza. Le misure coercitive sono attuate conformemente a quanto previsto dalla legislazione nazionale in osservanza dei diritti fondamentali e nel debito rispetto della dignità e dell'integrità fisica del cittadino di un paese terzo interessato».
11 L'art. 15 della medesima direttiva, compreso nel capo IV, relativo al trattenimento ai fini dell'allontanamento, è redatto nei seguenti termini:
«1. Salvo se nel caso concreto possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive, gli Stati membri possono trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto a procedure di rimpatrio soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l'allontanamento, in particolare quando:
a) sussiste un rischio di fuga o
b) il cittadino del paese terzo evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o dell'allontanamento.
Il trattenimento ha durata quanto più breve possibile ed è mantenuto solo per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio.
(...)
3. In ogni caso, il trattenimento è riesaminato ad intervalli ragionevoli su richiesta del cittadino di un paese terzo interessato o d'ufficio. Nel caso di periodi di trattenimento prolungati il riesame è sottoposto al controllo di un'autorità giudiziaria.
4. Quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi o che non sussistono più le condizioni di cui al paragrafo 1, il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata.
5. Il trattenimento è mantenuto finché perdurano le condizioni di cui al paragrafo 1 e per il periodo necessario ad assicurare che l'allontanamento sia eseguito. Ciascuno Stato membro stabilisce un periodo limitato di trattenimento, che non può superare i sei mesi.
6. Gli Stati membri non possono prolungare il periodo di cui al paragrafo 5, salvo per un periodo limitato non superiore ad altri dodici mesi conformemente alla legislazione nazionale nei casi in cui, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, l'operazione di allontanamento rischia di durare più a lungo a causa:
a) della mancata cooperazione da parte del cittadino di un paese terzo interessato, o
b) dei ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi».
12 L'art. 16 della direttiva 2008/115, rubricato «Condizioni di trattenimento», prevede al n. 1 quanto segue:
«Il trattenimento avviene di norma in appositi centri di permanenza temporanea. Qualora uno Stato membro non possa ospitare il cittadino di un paese terzo interessato in un apposito centro di permanenza temporanea e debba sistemarlo in un istituto penitenziario, i cittadini di paesi terzi trattenuti sono tenuti separati dai detenuti ordinari».
13 Ai sensi dell'art. 18 della direttiva 2008/115, rubricato «Situazioni di emergenza»:
«1. Nei casi in cui un numero eccezionalmente elevato di cittadini di paesi terzi da rimpatriare comporta un notevole onere imprevisto per la capacità dei centri di permanenza temporanea di uno Stato membro o per il suo personale amministrativo o giudiziario, sino a quando persiste la situazione anomala detto Stato membro può decidere di (...) adottare misure urgenti quanto alle condizioni di trattenimento in deroga a quelle previste all'articolo 16, paragrafo 1 (...).
2. All'atto di ricorrere a tali misure eccezionali, lo Stato membro in questione ne informa la Commissione. Quest'ultima è informata anche non appena cessino di sussistere i motivi che hanno determinato l'applicazione delle suddette misure eccezionali.
3. Nulla nel presente articolo può essere interpretato nel senso che gli Stati membri siano autorizzati a derogare al loro obbligo generale di adottare tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi ad essi incombenti ai sensi della presente direttiva».
14 Ai sensi dell'art. 20, n. 1, primo comma, della direttiva 2008/115, gli Stati membri dovevano mettere in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi a quest'ultima entro il 24 dicembre 2010, eccezion fatta per l'art. 13, n. 4.
15 Conformemente al suo art. 22, detta direttiva è entrata in vigore il 13 gennaio 2009.
La normativa nazionale
16 L'art. 13 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (Supplemento ordinario alla GURI n. 191 del 18 agosto 1998), come modificato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica (Supplemento ordinario alla GURI n. 170 del 24 luglio 2009; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 286/1998»), prevede ai commi 2 e 4 quanto segue:
«2. L'espulsione è disposta dal prefetto quando lo straniero:
a) è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto (...);
b) si è trattenuto nel territorio dello Stato (...) senza aver richiesto il permesso di soggiorno nei termini prescritti, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato, ovvero è scaduto da più di sessanta giorni e non è stato chiesto il rinnovo;
(...)
4. L'espulsione è sempre eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica ad eccezione dei casi di cui al comma 5».
17 L'art. 14 del decreto legislativo n. 286/1998 è così redatto:
«1. Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, [ad] accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di identificazione e di espulsione più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.
(...)
5-bis. Quando non sia stato possibile trattenere lo straniero presso un centro di identificazione ed espulsione, ovvero la permanenza in tale struttura non abbia consentito l'esecuzione con l'accompagnamento alla frontiera dell'espulsione o del respingimento, il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. L'ordine è dato con provvedimento scritto, recante l'indicazione delle conseguenze sanzionatorie della permanenza illegale, anche reiterata, nel territorio dello Stato. L'ordine del questore può essere accompagnato dalla consegna all'interessato della documentazione necessaria per raggiungere gli uffici della rappresentanza diplomatica del suo Paese in Italia, anche se onoraria, nonché per rientrare nello Stato di appartenenza ovvero, quando ciò non sia possibile, nello Stato di provenienza.
5-ter. Lo straniero che senza giustificato motivo permane illegalmente nel territorio dello Stato, in violazione dell'ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis, è punito con la reclusione da uno a quattro anni se l'espulsione o il respingimento sono stati disposti per ingresso illegale nel territorio nazionale (...), ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno o non aver dichiarato la propria presenza nel territorio dello Stato nel termine prescritto in assenza di cause di forza maggiore, ovvero per essere stato il permesso revocato o annullato. Si applica la pena della reclusione da sei mesi ad un anno se l'espulsione è stata disposta perché il permesso di soggiorno è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato richiesto il rinnovo, ovvero se la richiesta del titolo di soggiorno è stata rifiutata (...). In ogni caso, salvo che lo straniero si trovi in stato di detenzione in carcere, si procede all'adozione di un nuovo provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica per violazione all'ordine di allontanamento adottato dal questore ai sensi del comma 5-bis. Qualora non sia possibile procedere all'accompagnamento alla frontiera, si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 5-bis del presente articolo (...).
5-quater. Lo straniero destinatario del provvedimento di espulsione di cui al comma 5-ter e di un nuovo ordine di allontanamento di cui al comma 5-bis, che continua a permanere illegalmente nel territorio dello Stato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Si applicano, in ogni caso, le disposizioni di cui al comma 5-ter, terzo e ultimo periodo.
5-quinquies. Per i reati previsti ai commi 5-ter, primo periodo, e 5-quater si procede con rito direttissimo ed è obbligatorio l'arresto dell'autore del fatto».
Procedimento principale e questione pregiudiziale
18 Il sig. E. è un cittadino di un paese terzo entrato illegalmente in Italia e privo di permesso di soggiorno. Nei suoi confronti il prefetto di Torino ha emanato un decreto di espulsione in data 8 maggio 2004.
19 Un ordine di allontanamento dal territorio nazionale, emesso il 21 maggio 2010 dal questore di Udine, in esecuzione di detto decreto di espulsione, gli è stato notificato in pari data. Tale ordine di allontanamento era motivato dall'indisponibilità di un vettore o di altro mezzo di trasporto, dalla mancanza di documenti di identificazione del sig. E. nonché dall'impossibilità di ospitarlo in un centro di permanenza temporanea per mancanza di posti nelle apposite strutture.
20 Durante un controllo effettuato il 29 settembre 2010 è stato constatato che il sig. E. non si era conformato a detto ordine di allontanamento.
21 Il sig. E. è stato condannato dal Tribunale monocratico di Trento, all'esito di giudizio abbreviato, alla pena di un anno di reclusione per il reato di cui all'art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286/1998.
22 Egli ha impugnato tale decisione dinanzi alla Corte d'appello di Trento.
23 Quest'ultima s'interroga sulla possibilità di disporre una sanzione penale, nel corso della procedura amministrativa di rimpatrio di uno straniero, per inosservanza di una delle fasi di tale procedura; una simile sanzione sembra, infatti, contraria al principio di leale cooperazione, al conseguimento degli scopi della direttiva 2008/115 e al suo effetto utile, nonché ai principi di proporzionalità, di adeguatezza e di ragionevolezza della pena.
24 Essa precisa, al riguardo, che la sanzione penale di cui all'art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286/1998 interviene dopo l'accertata violazione di un passaggio intermedio della procedura graduale di attuazione della decisione di rimpatrio, prevista dalla direttiva 2008/115, ovverosia l'inottemperanza al solo ordine di allontanamento. Potendo andare da uno a quattro anni, la pena della reclusione sarebbe connotata, peraltro, da un carattere di estremo rigore.
25 Ciò considerato, la Corte d'appello di Trento ha deciso di sospendere il procedimento e di proporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se alla luce dei principi di leale collaborazione all'effetto utile di conseguimento degli scopi della direttiva e di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza della pena, gli artt. 15 e 16 della direttiva [2008/115] ostino:
- alla possibilità che venga sanzionata penalmente la violazione di un passaggio intermedio della procedura amministrativa di rimpatrio, prima che essa sia completata[,] con il ricorso al massimo rigore coercitivo ancora possibile amministrativamente;
- alla possibilità che venga punita con la reclusione sino a quattro anni la mera mancata cooperazione dell'interessato alla procedura di espulsione, ed in particolare l'ipotesi di inosservanza al primo ordine di allontanamento emanato dall'autorità amministrativa».
Sul procedimento d'urgenza
26 La Corte d'appello di Trento ha chiesto che il presente rinvio pregiudiziale sia sottoposto al procedimento d'urgenza previsto all'art. 104 ter del regolamento di procedura della Corte.
27 Il giudice del rinvio ha motivato tale domanda con il fatto che il sig. E. è detenuto in esecuzione della pena cui è stato condannato dal Tribunale di Trento.
28 La Prima Sezione della Corte, sentito l'avvocato generale, ha deciso di accogliere la domanda del giudice remittente di sottoporre il rinvio pregiudiziale al procedimento d'urgenza.
Sulla questione pregiudiziale
29 Con la sua questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l'irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo.
30 Il giudice del rinvio fa riferimento, al riguardo, al principio di leale cooperazione di cui all'art. 4, n. 3, TUE, nonché all'obiettivo di assicurare l'effetto utile del diritto dell'Unione.
31 In proposito si deve ricordare che, come enuncia il suo secondo 'considerando', la direttiva 2008/115 persegue l'attuazione di un'efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinché le persone interessate siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità.
32 Come si apprende tanto dal suo titolo quanto dall'art. 1, la direttiva 2008/115 stabilisce le «norme e procedure comuni» che devono essere applicate da ogni Stato membro al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare. Discende dalla locuzione summenzionata, come pure dall'economia generale della succitata direttiva, che gli Stati membri possono derogare a tali norme e procedure solo alle condizioni previste dalla direttiva medesima, segnatamente quelle fissate al suo art. 4.
33 Di conseguenza, mentre il n. 3 di detto art. 4 riconosce agli Stati membri la facoltà di introdurre o di mantenere disposizioni più favorevoli per i cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare rispetto a quelle stabilite dalla direttiva 2008/115, purché compatibili con quest'ultima, detta direttiva non permette invece a tali Stati di applicare norme più severe nell'ambito che essa disciplina.
34 Occorre del pari rilevare che la direttiva 2008/115 stabilisce con precisione la procedura che ogni Stato membro è tenuto ad applicare al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e fissa la successione delle diverse fasi di tale procedura.
35 In tal senso, l'art. 6, n. 1, di detta direttiva prevede anzitutto, in via principale, l'obbligo per gli Stati membri di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio sia irregolare.
36 Nell'ambito di questa prima fase della procedura di rimpatrio va accordata priorità, salvo eccezioni, all'esecuzione volontaria dell'obbligo derivante dalla decisione di rimpatrio; in tal senso, l'art. 7, n. 1, della direttiva 2008/115 dispone che detta decisione fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni.
37 Risulta dall'art. 7, nn. 3 e 4, di detta direttiva che solo in circostanze particolari, per esempio se sussiste rischio di fuga, gli Stati membri possono, da un lato, imporre al destinatario di una decisione di rimpatrio l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, di prestare una garanzia finanziaria adeguata, di consegnare i documenti o di dimorare in un determinato luogo oppure, dall'altro, concedere un termine per la partenza volontaria inferiore a sette giorni o addirittura non accordare alcun termine.
38 In quest'ultima ipotesi, ma anche nel caso in cui l'obbligo di rimpatrio non sia stato adempiuto entro il termine concesso per la partenza volontaria, risulta dall'art. 8, nn. 1 e 4, della direttiva 2008/115 che, al fine di assicurare l'efficacia delle procedure di rimpatrio, tali disposizioni impongono allo Stato membro, che ha adottato una decisione di rimpatrio nei confronti di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare, l'obbligo di procedere all'allontanamento, prendendo tutte le misure necessarie, comprese, all'occorrenza, misure coercitive, in maniera proporzionata e nel rispetto, in particolare, dei diritti fondamentali.
39 Al riguardo, discende dal sedicesimo 'considerando' di detta direttiva nonché dal testo del suo art. 15, n. 1, che gli Stati membri devono procedere all'allontanamento mediante le misure meno coercitive possibili. Solo qualora l'esecuzione della decisione di rimpatrio sotto forma di allontanamento rischi, valutata la situazione caso per caso, di essere compromessa dal comportamento dell'interessato, detti Stati possono privare quest'ultimo della libertà ricorrendo al trattenimento.
40 Conformemente all'art. 15, n. 1, secondo comma, della direttiva 2008/115, tale privazione della libertà deve avere durata quanto più breve possibile e protrarsi solo per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio. Ai sensi dei nn. 3 e 4 di detto art. 15, tale privazione della libertà è riesaminata ad intervalli ragionevoli e deve cessare appena risulti che non esiste più una prospettiva ragionevole di allontanamento. I nn. 5 e 6 del medesimo articolo fissano la sua durata massima in 18 mesi, termine tassativo per tutti gli Stati membri. L'art. 16, n. 1, di detta direttiva, inoltre, prescrive che gli interessati siano collocati in un centro apposito e, in ogni caso, separati dai detenuti di diritto comune.
41 Emerge da quanto precede che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 corrisponde ad una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell'interessato - la concessione di un termine per la sua partenza volontaria - alla misura che maggiormente limita la sua libertà - il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l'obbligo di osservare il principio di proporzionalità.
42 Perfino il ricorso a quest'ultima misura, la più restrittiva della libertà che la direttiva consente nell'ambito di una procedura di allontanamento coattivo, appare strettamente regolamentato, in applicazione degli artt. 15 e 16 di detta direttiva, segnatamente allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi.
43 In particolare, la durata massima prevista all'art. 15, nn. 5 e 6, della direttiva 2008/115 ha lo scopo di limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo (sentenza 30 novembre 2009, causa C-357/09 PPU, Kadzoev, Racc. pag. I-11189, punto 56). La direttiva 2008/115 intende così tener conto sia della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale il principio di proporzionalità esige che il trattenimento di una persona sottoposta a procedura di espulsione o di estradizione non si protragga oltre un termine ragionevole, vale a dire non superi il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito (v., in particolare, Corte eur. D.U, sentenza Saadi c. Regno Unito del 29 gennaio 2008, non ancora pubblicata nel Recueil des arrêts et décisions, §§ 72 e 74), sia dell'ottavo dei «Venti orientamenti sul rimpatrio forzato» adottati il 4 maggio 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, ai quali la direttiva fa riferimento nel terzo 'considerando'. Secondo tale principio, il trattenimento ai fini dell'allontanamento deve essere quanto più breve possibile.
44 E' alla luce delle suesposte considerazioni che occorre valutare se le regole comuni introdotte dalla direttiva 2008/115 ostino ad una normativa nazionale come quella in discussione nel procedimento principale.
45 Al riguardo va rilevato, in primo luogo, che, come risulta dalle informazioni fornite sia dal giudice del rinvio sia dal governo italiano nelle sue osservazioni scritte, la direttiva 2008/115 non è stata trasposta nell'ordinamento giuridico italiano.
46 Orbene, per costante giurisprudenza, qualora uno Stato membro si astenga dal recepire una direttiva entro i termini o non l'abbia recepita correttamente, i singoli sono legittimati a invocare contro detto Stato membro le disposizioni di tale direttiva che appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise (v. in tal senso, in particolare, sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 46, e 3 marzo 2011, causa C-203/10, Auto Nikolovi, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 61).
47 Ciò vale anche per gli artt. 15 e 16 della direttiva 2008/115, i quali, come si evince dal punto 40 della presente sentenza, sono incondizionati e sufficientemente precisi da non richiedere ulteriori specifici elementi perché gli Stati membri li possano mettere in atto.
48 Peraltro, una persona che si trovi nella situazione del sig. E. rientra nell'ambito di applicazione ratione personae della direttiva 2008/115, la quale si applica, conformemente al suo art. 2, n. 1, ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro sia irregolare.
49 Come ha osservato l'avvocato generale ai paragrafi 22-28 della sua presa di posizione, non incide su tale conclusione l'art. 2, n. 2, lett. b), di detta direttiva, ai sensi del quale gli Stati membri possono decidere di non applicare la direttiva ai cittadini di paesi terzi sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o in conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale, o sottoposti a procedura di estradizione. Invero, si apprende dalla decisione di rinvio che l'obbligo di rimpatrio risulta, nel procedimento principale, da un decreto del prefetto di Torino dell'8 maggio 2004. Peraltro, le sanzioni penali di cui a detta disposizione non concernono l'inosservanza del termine impartito per la partenza volontaria.
50 Si deve constatare, in secondo luogo, che, sebbene il decreto del prefetto di Torino dell'8 maggio 2004, in quanto stabilisce un obbligo per il sig. E. di lasciare il territorio nazionale, integri una «decisione di rimpatrio» come definita all'art. 3, punto 4, della direttiva 2008/115 e menzionata, in particolare, agli artt. 6, n. 1, e 7, n. 1, della stessa, la procedura di allontanamento prevista dalla normativa italiana in discussione nel procedimento principale differisce notevolmente da quella stabilita da detta direttiva.
51 Infatti, mentre detta direttiva prescrive la concessione di un termine per la partenza volontaria, compreso tra i sette e i trenta giorni, il decreto legislativo n. 286/1998 non prevede una tale misura.
52 Per quanto riguarda, poi, le misure coercitive che gli Stati membri possono adottare ai sensi dell'art. 8, n. 4, della direttiva 2008/115, in particolare l'accompagnamento coattivo alla frontiera previsto all'art. 13, comma 4, del decreto legislativo n. 286/1998, è giocoforza constatare che, in una situazione in cui tali misure non abbiano consentito di raggiungere il risultato perseguito, ossia l'allontanamento del cittadino di un paese terzo contro il quale sono state disposte, gli Stati membri restano liberi di adottare misure, anche penali, atte segnatamente a dissuadere tali cittadini dal soggiornare illegalmente nel territorio di detti Stati.
53 Occorre tuttavia rilevare che, se è vero che la legislazione penale e le norme di procedura penale rientrano, in linea di principio, nella competenza degli Stati membri, su tale ambito giuridico può nondimeno incidere il diritto dell'Unione (v. in questo senso, in particolare, sentenze 11 novembre 1981, causa 203/80, Casati, Racc. pag. 2595, punto 27; 2 febbraio 1989, causa 186/87, Cowan, Racc. pag. 195, punto 19, e 16 giugno 1998, causa C-226/97, Lemmens, Racc. pag. I-3711, punto 19).
54 Di conseguenza, sebbene né l'art. 63, primo comma, punto 3, lett. b), CE - disposizione che è stata ripresa dall'art. 79, n. 2, lett. c), TFUE - né la direttiva 2008/115, adottata in particolare sul fondamento di detta disposizione del Trattato CE, escludano la competenza penale degli Stati membri in tema di immigrazione clandestina e di soggiorno irregolare, questi ultimi devono fare in modo che la propria legislazione in materia rispetti il diritto dell'Unione.
55 In particolare, detti Stati non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare così quest'ultima del suo effetto utile.
56 Infatti, ai sensi rispettivamente del secondo e del terzo comma dell'art. 4, n. 3, TUE, gli Stati membri, in particolare, «adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione» e «si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione», compresi quelli perseguiti dalle direttive.
57 Quanto, più specificamente, alla direttiva 2008/115, si deve ricordare che - come enuncia il suo tredicesimo 'considerando' - essa subordina espressamente l'uso di misure coercitive al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti.
58 Ne consegue che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all'insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all'allontanamento coattivo conformemente all'art. 8, n. 4, di detta direttiva, una pena detentiva, come quella prevista all'art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286/1998, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale. Essi devono, invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti.
59 Una tale pena, infatti, segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell'obiettivo perseguito da detta direttiva, ossia l'instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare. In particolare, come ha rilevato l'avvocato generale al paragrafo 42 della sua presa di posizione, una normativa nazionale quale quella oggetto del procedimento principale può ostacolare l'applicazione delle misure di cui all'art. 8, n. 1, della direttiva 2008/115 e ritardare l'esecuzione della decisione di rimpatrio.
60 Ciò non esclude la facoltà per gli Stati membri di adottare, nel rispetto dei principi della direttiva 2008/115 e del suo obiettivo, disposizioni che disciplinino le situazioni in cui le misure coercitive non hanno consentito di realizzare l'allontanamento di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sul loro territorio sia irregolare.
61 Alla luce di quanto precede, al giudice del rinvio, incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto dell'Unione e di assicurarne la piena efficacia, spetterà disapplicare ogni disposizione del decreto legislativo n. 286/1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l'art. 14, comma 5-ter, di tale decreto legislativo (v., in tal senso, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc. pag. 629, punto 24; 22 maggio 2003, causa C-462/99, Connect Austria, Racc. pag. I-5197, punti 38 e 40, nonché 22 giugno 2010, cause riunite C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 43). Ciò facendo il giudice del rinvio dovrà tenere debito conto del principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (sentenze 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a., Racc. pag. I-3565, punti 67-69, nonché 11 marzo 2008, causa C-420/06, Jager, Racc. pag. I-1315, punto 59).
62 Pertanto, occorre risolvere la questione deferita dichiarando che la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l'irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo.
Sulle spese
63 Nei confronti delle parti nel procedimento principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l'irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo.
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