Home Diritto Civile e Commerciale Normativa Espropriazione immobiliare della casa coniugale in comunione legale nel pieno "rispetto (economico)" del coniuge non debitore.
  • Mercoledì 08 Giugno 2016 11:16
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    Diritto Civile e Diritto Commerciale/Normativa

    Espropriazione immobiliare della casa coniugale in comunione legale nel pieno "rispetto (economico)" del coniuge non debitore.

    Sentenza Cassazione Civile n. 6230 del 31/03/2016
    La Corte di Cassazione con sentenza del 31 marzo 2016 numero 6230, si è pronunciata circa la diffusa e non infrequente fattispecie relativa alla possibilità di pignorare la casa coniugale compresa in comunione legale, anche quando solo uno dei coniugi è debitore purché l’altro coniuge, non debitore, riceva metà del ricavato dalla vendita all’asta dell’immobile stesso.
    La pronuncia, anzitutto supera alcune eccezioni di rito relative alla inammissibilità delle memorie introdotte nel giudizio in Cassazione tramite spedizione a mezzo posta e pervenute oltre il quinto giorno antecedente l'udienza di discussione, quand'anche anticipate a mezzo telefax – per esprimersi poi sul thema decidendum della controversia individuato nell'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. con cui il coniuge non debitore chiese dichiararsi la nullità della vendita disposta in favore del terzo, in quanto comproprietaria del bene venduto.
    La pronuncia si articola quindi intorno al tema delle condizioni di proponibilità dell'opposizione di terzo all'esecuzione e sul diritto di opporsi alla vendita in relazione alla qualificazione dell'azione (quale opposizione di terzo e/o rivendicazione del bene) fornendo importanti precisazioni sul punto del requisito della autosufficienza del ricorso, ed ancora contribuendo a chiarire che, respinta una richiesta di interpretazione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, poiché integra un acte claire, tale cioè da precludere in radice qualunque anche solo astratta contrarietà alle normative comunitarie o Eurounitarie e la stessa possibilità di rimessione degli atti alla Corte di Giustizia l'interpretazione della disciplina nazionale sulla devoluzione della tutela del coniuge in regime di comunione legale - attesa l'invalsa e consolidata qualificazione di questa come "comunione senza quote" (corrispondente anzi ad istituti di matrice germanica e quindi diffusi anche in ambito Europeo o comunque non limitati all'ambito nazionale) e quindi insuscettibile di pignoramento separato o per quote - alla mera sede esecutiva, nel corso della quale, essendovi comunque almeno indirettamente assoggettato perchè coinvolto (a somiglianza di qualunque altro contitolare di diritti sui beni pignorati, che subisce gli effetti dell'espropriazione per il debito di un contitolare pur non essendo egli stesso in alcun modo debitore o responsabile per il debito che gli provoca la perdita della titolarità del bene in natura), egli può avvalersi degli strumenti propri del processo e, a tutto concedere, apparendo idoneo contemperamento tra il suo diritto dominicale e la responsabilità del suo coniuge verso i propri debitori la partecipazione prioritaria alla distribuzione del ricavato della vendita del bene.
    Infine, la Corte, respingendo il ricorso innanzi a sé, conclude che bene è stata applicata dal giudice territoriale alla fattispecie il principio di diritto per il quale: “…per il debito di uno dei coniugi correttamente è sottoposto a pignoramento per l'intero il bene, pure se in parte compreso nella comunione legale con l'altro coniuge, con conseguente esclusione di ogni irritualità o illegittimità degli atti tutti della procedura, fino all'aggiudicazione ed al trasferimento di quello in favore di terzi compresi, nonchè con esclusione della fondatezza della pretesa del debitore esecutato e dell'opponente originaria non solo di caducare tali atti, ma pure di separare di quel bene parti o quote o di conseguire dalla procedura esiti diversi dalla vendita per l'intero, salva la corresponsione al coniuge non debitore, in sede di distribuzione, della metà del ricavato lordo di essa, dovuta in dipendenza dello scioglimento, avutosi sia pure in via eccezionale limitatamente a quel bene, ma per esigenze di giustizia ed all'ano del decreto di trasferimento, della comunione legale in parola...”

    Dott.ssa Giuliana Sgroi

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    REPUBBLICA ITALIANA

     

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

     

    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

     

    SEZIONE TERZA CIVILE

     

    Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

     

    Dott. AMBROSIO Annamaria - Presidente -

     

    Dott. FRASCA Raffaele - Consigliere -

     

    Dott. DE STEFANO Franco - rel. Consigliere -

     

    Dott. RUBINO Lina - Consigliere -

     

    Dott. BARRECA Giuseppina Luciana - Consigliere -

     

    ha pronunciato la seguente:

     

    SENTENZA

     

    sul ricorso 10356/2014 proposto da:

     

    S.L. ((OMISSIS)) e P.C. ((OMISSIS)), elettivamente ora domiciliati in ROMA, VIA PILO ALBERTELLI 1, presso lo studio dell'avvocato L. C., rappresentati e difesi dall'avvocato S. S., giusta procura speciale in calce al ricorso;

     

    - ricorrenti -

     

    contro

     

    I. SPA, quale mandataria di C. F. SPA, a sua volta cessionaria del credito per cui si agisce in via esecutiva, in persona del dott. B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BRESSANONE 3, presso lo studio dell'avvocato MARIA LUISA CASOTTI CANTATORE, rappresentata e difesa dagli avvocati P. F., L. F., M. F., in virtù di procura speciale in calce al controricorso;

     

    - controricorrente -

     

    e contro

     

    BANCA NAZIONALE DEL LAVORO SPA; BANCA DI CREDITO SARDO SPA;

     

    - intimate -

     

    avverso la sentenza n. 674/2013 della CORTE DI APPELLO DI CAGLIARI, emessa il 28/06/2013, depositata il 06/11/2013, R.G.N. 439/2003;

     

    udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/1/2016 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCO DE STEFANO;

     

    udito l'Avvocato S. S.;

     

    udito l'Avvocato M. L. C. C. per delega;

     

    udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

     

    Svolgimento del processo

     

    1. - Con atto del 7.12.2000 S.L. propose opposizione di terzo, ex art. 619 c.p.c., avverso la procedura esecutiva immobiliare N. 72/1987 R.G.E., pendente dinanzi al Tribunale di Cagliari ad istanza di B.N.L. nei confronti del proprio consorte, P. C., deducendo l'illegittimità della vendita di un immobile sito nel Comune di Monserrato, di mq. 445, con entrostante fabbricato composto da due elevazioni f.t., in catasto riportato al f. 26, part. 1210, vendita tenutasi il 5.10.1995 e finalmente realizzata con decreto di trasferimento del 12.1.1996 in favore di C. M., e ciò in quanto lesiva dei suoi diritti dominicali afferenti alla sua quota parte, pari ad 1/4 indiviso dell'immobile medesimo, in comunione legale (per la complessiva metà) con il marito.

     

    Il Tribunale di Cagliari, con sentenza del 14.11/6.12.2002, respinse l'opposizione, in quanto in parte inammissibile ai sensi dell'art. 620 c.p.c., ed in parte infondata, ai sensi dell'art. 2921 c.c..

     

    La Corte d'appello di Cagliari, adita dalla S. e dinanzi alla quale il P. era intervenuto aderendo alle doglianze della propria moglie, rigettò l'appello con sentenza del 6.11.2013, condannando l'appellante alla rifusione delle spese di lite sia in favore della B.N.L. che dell'I. (creditori costituiti, contumace essendo rimasta la Banca di Credito Sardo) e compensandole tra la S. e l'esecutato.

     

    S.L. e P.C. propongono oggi ricorso per cassazione, affidato a sette motivi.

     

    Resiste con controricorso l'I. spa, nella qualità di mandataria di C. F. srl, a sua volta cessionaria delle ragioni di credito per cui si procede.

     

    Con ordinanza interlocutoria n. 22647 del 5 novembre 2015 rigettata un'istanza di ricusazione del relatore e di diversi consiglieri, anche non componenti del Collegio giudicante della precedente udienza 20.10.15, per la successiva pubblica udienza del 21.1.16, i ricorrenti, anticipatala a mezzo fax il 16 gennaio, spediscono per posta ulteriore memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..

     

    Motivi della decisione

     

    2. - Va, in via preliminare, esaminata la memoria dei ricorrenti pervenuta in originale (come da annotazione della cancelleria) alle 12.50 del 18.1.16, dopo essere stata spedita a mezzo fax il 16.1.16 e a mezzo posta il 14.1.16: memoria con la quale, tra l'altro, sono riproposte istanze in rito e di merito già sollevate nei precedenti scritti, alcune delle prime delle quali pure in parte già esaminate con la richiamata ordinanza interlocutoria.

     

    Tale memoria è inammissibile.

     

    Allo stato della vigente legislazione processuale, nel giudizio di legittimità soltanto il ricorso e il controricorso, già notificati, possono essere acquisiti agli atti del fascicolo di ufficio anche mediante spedizione a mezzo posta, in forza dell'art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5; mentre è inammissibile la memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c. la quale, benchè spedita a mezzo posta in tempo utile, sia pervenuta oltre il quinto giorno antecedente l'udienza di discussione, quand'anche anticipata a mezzo telefax (Cass., ord. 16 ottobre 2009, n. 22033; Cass. 18 novembre 2013, n. 25812; principio esteso alla memoria dell'art. 380-bis c.p.c. da Cass., ord. 20 ottobre 2014, n. 22201) e perfino se contenga in tal caso un'istanza di ricusazione (in tali espressi termini, v. Cass., ord. 24 novembre 2014, n. 24934), comunque pervenga materialmente in cancelleria per essere formalmente acquisita agli atti del fascicolo di ufficio.

     

    Nella parte in cui la memoria in apparenza illustra le tesi già svolte, quindi, è inammissibile perchè la memoria è stata ritualmente depositata in cancelleria tardivamente.

     

    Nella parte in cui la memoria sembrerebbe dispiegare nuova ricusazione, a quanto è dato capire per le ragioni non esaminate dalla già resa ordinanza sulla precedente istanza di ricusazione di uno dei componenti dell'odierno Collegio, nonchè muovere altri ordini di doglianza, invece essa è inammissibile perchè comunque la spedizione a mezzo fax ed a mezzo posta non è tra i mezzi consentiti dal capoverso dell'art. 52 c.p.c.; questa norma tuttora espressamente impone che il ricorso con l'istanza di ricusazione sia depositato in cancelleria, mentre, per quanto già accennato e compiutamente sviluppato nei precedenti già richiamati, la spedizione a mezzo posta di atti di parte in cancelleria è limitata, allo stato della normativa vigente ed applicabile al giudizio di legittimità, al ricorso ed al controricorso, restando quella con altri mezzi limitata alle comunicazioni da parte delle cancellerie ed alle notificazioni tra difensori.

     

    Nè può ammettersi, allo stato e per tali ricorsi, alcuna altra forma di deposito e quindi attenuarsi il rigore formale delle previsioni codicistiche originarie, essendo evidentemente funzionale la relativa solennità della forma a rimarcare l'estrema severità delle conseguenze sul regolare ed ordinato sviluppo del procedimento, nonchè la gravità delle motivazioni che devono indurre a respingere il postulato dell'imparzialità del giudice chiamato ad occuparsi della causa: e tanto nel superiore interesse a scongiurare l'uso strumentale o improprio di istanze di ricusazione, che non sarebbe mai consentito - non comportando il diritto ad un giudice imparziale il diritto della parte di insultare, vilipendere o tentare di intimidire il giudice che in occasioni simili o analoghe le avrebbe dato torto (Cass., ord. 24 novembre 2014, n. 24934) - per le considerazioni già ampiamente svolte da Cass. Sez. Un., ord. 22 luglio 2014, n. 16627, alle quali può qui farsi integrale riferimento.

     

    La rilevata inammissibilità della memoria in esame comporta l'irrilevanza, ai fini del decidere, di qualunque istanza a contenuto processuale ivi formulata, compresa quindi non solo la proposizione di eccezioni di illegittimità costituzionale o di contrarietà a normative sovranazionali di vario rango, ma anche la pretesa reiterazione della ricusazione di uno dei componenti dell'odierno Collegio.

     

    Peraltro, il tenore letterale delle espressioni adoperate dal P., dalla S. e dal loro difensore è di tale serietà e gravità da imporre la trasmissione, con separato provvedimento, della medesima memoria tardiva al P.G. in sede, per quanto di sua competenza ed anche ai sensi dell'art. 331 c.p.p., comma 4.

     

    Può allora ed infine passarsi alla disamina del ricorso.

     

    3. - Questi i motivi di doglianza dei ricorrenti.

     

    3.1. Con il primo motivo di ricorso, deducendo vizi "ex art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Nullità della pronuncia", S.L. e P.C. censurano la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che l'inesistenza del pignoramento eccepita dagli odierni ricorrenti, per il fatto che esso ha avuto ad oggetto anche la quota di spettanza esclusiva della stessa S., "è assunto che non ha alcun fondamento nelle disposizioni normative che regolano la materia e deve pertanto essere assolutamente disatteso". I ricorrenti, quindi, passano a riprodurre le pagine da 11 a 14 della comparsa conclusionale in grado d'appello da loro depositata il 12.2.13 e le pagine da 1 a 6 della memoria di replica del 4.3.13, per concludere che, su tutto quanto esposto, la Corte d'Appello di Cagliari "nulla ha detto, incorrendo, quindi, nei vizi in rubrica, con nullità della pronuncia".

     

    3.2. Con il secondo motivo, deducendo vizi "ex art. 360 c.p.c., a) per violazione e falsa applicazione dell'art. 111 Cost., comma 6., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in correlazione con gli artt. 189 - 177 c.c., artt. 498, 599, 600 e 601 c.p.c.. b) n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti", S.L. e P.C. censurano quella stessa parte della sentenza impugnata in quanto comunque erronea, giacche nella sostanza immotivata e apodittica, oltre che essa stessa contraria alle disposizioni che regolano la materia, in quanto il pignoramento eseguito in danno del P. era comunque nullo perchè non identificava correttamente il bene; la regola di cui all'art. 189 c.c. non consente di aggredire il bene in comunione legale come bene appartenente per l'intero al debitore; non rientra tra i poteri del giudice dell'esecuzione quello di vendere come bene di esclusiva proprietà un bene della comunione legale, con conseguente inesistenza del relativo provvedimento; lo stesso giudice non può disporre la vendita in assenza dell'avviso ex art. 599 c.p.c.; infine, non può procedersi alla vendita dell'intero, ai sensi degli artt. 600 e 601 c.p.c., se il bene risulta divisibile.

     

    Sotto altro profilo, proseguono i ricorrenti, i vizi di nullità e di inesistenza giuridica devono essere rilevati d'ufficio, contrariamente a quanto effettuato dalla Corte d'Appello di Cagliari, sebbene sollecitata sul punto.

     

    3.3. Con il terzo motivo, deducendo vizi "ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione e falsa applicazione dell'art. 619 c.p.c., artt. 189 - 177 c.c., artt. 1483 - 1484 c.c.", S.L. e P.C. censurano la sentenza d'appello nella parte in cui afferma che nel giudizio ex art. 619 c.p.c. il terzo è legittimato a far valere esclusivamente il proprio diritto reale, ma non già pretese illegittimità della procedura esecutiva, compresi i vizi del pignoramento, giungendo quindi a ritenere di non doversi soffermare sulla rivisitazione del procedimento esecutivo di cui agli atti di causa dell'appellante e di P.C.. Sostengono al contrario i ricorrenti che la S. si è limitata ad eccepire l'illegittimità del pignoramento nella misura in cui incideva sulla sua sfera giuridica, ossia perchè aggrediva il bene in questione come appartenente per l'intero al proprio marito, senza eccepire alcun vizio della procedura.

     

    3.4. Con il quarto motivo, deducendo vizi "ex art. 360 c.p.c., n. 4, a) per violazione e falsa applicazione degli artt. 619 - 620 c.p.c., art. 2921 c.c., artt. 2643 c.c. e segg., nonchè del costante orientamento in materia della Corte intestata, addirittura citato in sentenza. Per violazione e falsa applicazione degli artt. 1421, 112 - 156 - 157, 102 c.p.c., e dei principi generali in materia di nullità degli atti anche giurisdizionali", i ricorrenti censurano la gravata sentenza laddove essa, nelle pagine da 8 a 13, trascritte, si sofferma sulle condizioni di proponibilità dell'opposizione di terzo, giungendo a negarne la sussistenza nel caso di specie, dal momento che la vendita era stata finalmente eseguita con decreto di trasferimento del 12.1.96 in favore di C.M., mentre la S. aveva proposto l'opposizione ex art. 619 c.p.c. con ricorso del 6-7.12.00, ossia dopo quasi cinque anni. Sostengono i ricorrenti che, contrariamente a quanto opinato dalla Corte di merito, la necessità che l'opposizione di terzo sia proposta prima che venga eseguita la vendita attiene alla sola espropriazione mobiliare, correlata com'è alla traditio, rispetto a quanto previsto invece circa il regime traslativo dei beni immobili. Erroneamente, quindi, il giudice d'appello avrebbe richiamato il precedente di Cass. n. 19761/12, non cogliendone, anzi, "violandone" il contenuto reale, dal cui apprezzamento deriva la piena proponibilità dell'opposizione anche in epoca successiva all'emissione del decreto di trasferimento, ove si tratti appunto di beni immobili. La Corte d'appello, proseguono i ricorrenti, ha ritenuto di non poter seguire l'insegnamento richiamato perchè non era stata evocata in giudizio, nella specie, l'acquirente C.M., ma anche in questo errando, poichè - dovendo qualificarsi l'opposizione come domanda di rivendica - si imponeva l'integrazione del contraddittorio nei confronti di questa quale litisconsorte necessario.

     

    3.5. Con il quinto motivo, deducendo vizi "ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione e falsa applicazione degli artt. 619 e 498 c.p.p. (rectius, c.p.c.), in relazione agli artt. 189 - 177 c.c.", i ricorrenti censurano la gravata sentenza nella parte in cui essa, a p. 13, afferma che la vendita del cespite in questione, in quanto comprensiva anche della quota del P., non è nulla, bensì solo inopponibile alla S.. Al contrario, sostengono i ricorrenti, la vendita ha riguardato l'intero bene come se fosse di proprietà del solo P., e quindi il trasferimento alla C. non è soltanto inopponibile alla S., ma anche intrinsecamente nullo per nullità/inesistenza giuridica del pignoramento.

     

    3.6. Con il sesto motivo, deducendo vizi "ex art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione e falsa applicazione degli artt. 189 - 177 c.c., dell'art. 600 c.p.c. in relazione anche agli artt. 529 - 530 c.p.c.", S.L. e P.C. censurano l'argomentazione della sentenza d'appello a p. 14, "sulla nullità della vendita 5/10/1995 eccepita dal P.", laddove essa per completezza richiama l'insegnamento di Cass. n. 6575/13 circa la necessità che il bene in comunione legale, trattandosi di comunione senza quote, abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non solo pro quota, sicchè il terzo comproprietario in comunione ha diritto "alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione". Sostengono i ricorrenti come la Corte abbia omesso di affrontare alcuni problemi al riguardo, ed in particolare quello "della compatibilità della mera corresponsione di somma in denaro con il diritto, comunque, alla procedura di evizione"; quello della priorità del diritto di evitare, per il comproprietario non debitore, la vendita dell'intero bene; quello di evitare, nel caso di ritenuta non divisibilità, il meccanismo dei ribassi d'asta almeno per la quota di pertinenza del comproprietario non debitore; la applicabilità del versamento del corrispondente monetario solo se il comproprietario vi concordi.

     

    3.7. Con il settimo motivo, infine, deducendo vizi "ex art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione e falsa applicazione dei principi di diritto comunitario", S.L. e P.C. censurano l'omessa rimessione degli atti alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234, u.c., del Trattato istitutivo della Comunità Europea (rectius, adesso, art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea), stante la ritenuta plateale incompatibilità del diritto interno con quello comunitario, nella parte in cui consente che il comproprietario non debitore debba subire l'espropriazione del bene senza adeguato riconoscimento del proprio diritto, e per altro verso che debba "accontentarsi" di una parte del prezzo ricavato, anzichè vedere fatta salva la sua quota in natura.

     

    4. - In via assolutamente preliminare, va rilevato che P. C., quale debitore esecutato nella procedura N. 72/87 R.G.E. avviata dinanzi al Tribunale di Cagliari, è litisconsorte necessario nel procedimento ex art. 619 c.p.c. (ex multis, Cass. 21 luglio 2000, n. 9645), giacchè la sentenza che tale giudizio definisce dev'essere resa anche nei suoi confronti, a pena di nullità. Il ricorso per cassazione da lui proposto unitamente alla propria moglie, ossia la terza opponente S.L., poichè ne sposa integralmente le ragioni (il che è avvenuto, come emerge dalla sentenza impugnata, fin dal primo grado del giudizio), deve quindi intendersi come adesivo dipendente, sicchè egli non è legittimato a far valere, in proprio, doglianze spettanti unicamente all'opponente, nè può pretendere, come meglio si dirà infra, di introdurre nel presente giudizio domande e questioni che avrebbe dovuto autonomamente proporre, in seno alla procedura esecutiva, ai sensi dell'art. 617 c.p.c., oltretutto entro i rigorosi termini decadenziali da tale norma previsti.

     

    5. - Ciò posto, sempre in via preliminare va affrontato il problema dell'integrità del contraddittorio fin dal primo grado.

     

    Sul punto, è ben vero che l'aggiudicataria dell'immobile, trasferito nel prosieguo del processo esecutivo immobiliare i cui atti introduttivi sono oggetto di contestazione, non ha mai preso parte al presente giudizio.

     

    E tuttavia tale mancata partecipazione dipende, con tutta evidenza, dalla consapevole e reiterata scelta processuale della medesima opponente originaria (se non pure del debitore intervenuto in appello), di impostare l'azione come opposizione di terzo all'esecuzione, insistendo nel qualificarla ammissibile anche dopo la vendita del bene, nonostante la lettera della norma codicistica: in quanto tale, cioè in quanto opposizione di terzo ad esecuzione, non è insostenibile che l'azione allora non vada proposta contro nessun altro che non sia già parte del processo esecutivo fino ad un tempo immediatamente precedente la vendita e quindi contro nessun altro che debitore e creditori, proprio perchè la fattispecie processuale è data per l'ipotesi in cui la vendita non ha avuto ancora luogo.

     

    La solo apparente pretermissione dell'aggiudicataria dipende così esclusivamente dalla qualificazione dell'azione, costantemente sostenuta prima soltanto dall'opponente e poi pure dall'interventore;

     

    la quale qualificazione condiziona la verifica della pienezza e ritualità del contraddittorio, determinandone l'esito positivo anche in questa sede.

     

    Per avere la S. impostato l'azione come opposizione di terzo ad esecuzione e per essere questa data - ma, ben significativamente, proprio prima della vendita - solo nei confronti di debitore e creditori perchè presumibili uniche controparti prima della vendita, allora, il contraddittorio è stato ab origine integro.

     

    6. - Prima dell'analitica disamina del merito dei motivi di ricorso, rileva il Collegio che la fattispecie si incentra sulla pretesa illegittimità del pignoramento in quanto riferito ad un bene almeno in parte ricadente nella comunione legale tra i coniugi P.- S..

     

    6.1. In ordine a tale fattispecie la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 14 marzo 2013, n. 6575) ha già concluso per la necessità e la contemporanea legittimità, in un contesto in cui è costante la qualificazione di quella comunione come comunione senza quote o a mani riunite, dell'aggressione esecutiva di ognuno dei beni di essa facente parte, esclusivamente nella sua interezza e non per una inesistente quota della metà, salvo il diritto del coniuge non debitore a percepire, in sede di distribuzione del ricavato, la metà del ricavato (al lordo delle spese di procedura) della vendita del bene.

     

    Ed è pure stato specificato che il coniuge non debitore, che la precedente giurisprudenza di questa Corte di legittimità, senza affrontare però ex professo il problema, abilitava a proporre le opposizioni agli atti esecutivi o perfino di terzo, potrà certo esperirle: ma, quanto all'opposizione di terzo, non potrà con essa pretendere di escludere dall'espropriazione una quota del bene in natura, che non gli spetta e di cui - fino allo scioglimento della comunione, anche solo limitatamente a quel bene e dovuto alla conclusione del procedimento espropriativo che lo aveva ad oggetto - non è titolare, ma, ad esempio, fare valere la proprietà esclusiva del bene staggito, per sua estraneità alla comunione; oppure, con opposizione ad esecuzione, far valere la non sussidiarietà del bene in comunione, per la presenza di beni personali del coniuge debitore utilmente aggredibili per il soddisfacimento del credito personale verso quest'ultimo; oppure ancora, con opposizione agli atti esecutivi, fare valere le nullità di quelli, fra questi, che comportino la violazione o la limitazione del suo diritto alla metà del controvalore del bene, come pure quelli che incidano sulla pienezza di quest'ultimo, se relativi alle operazioni di vendita o assegnazione.

     

    6.2. Da tale principio questa Corte ha già ricavato la conclusione dell'impraticabilità di una opposizione di terzo all'esecuzione per pretendere di escludere dall'espropriazione una quota del bene (Cass. 29 maggio 2015, n. 11175); e tale principio può allora oggi, da un lato, integrarsi con la puntualizzazione dell'insussistenza di un interesse del coniuge debitore a dedurre l'appartenenza del bene alla comunione legale, poichè di regola non ha l'esecutato a dolersi dell'appartenenza del bene staggito ad altri od anche solo in parte ad altri, nonchè, dall'altro lato, ulteriormente specificarsi con il rilievo della non legittimazione del coniuge non debitore a rivendicare alcunchè, se non sotto forma della metà (lorda, non potendo farglisi carico anche delle spese di una liquidazione che già ha luogo contro la sua volontà) del solo controvalore del bene all'atto della distribuzione e quindi come oggetto di un'autentica controversia distributiva (ai sensi dell'art. 512 c.p.c.), ma senza mai il potere di paralizzare o inficiare gli atti di disposizione del bene compiuti durante il processo di espropriazione.

     

    6.3. Nè può, in particolare, convenirsi con quell'accorta dottrina che ha ritenuto regolabile la fattispecie ai sensi degli artt. 602 c.p.c. e ss.: a tanto osta la premessa, di continuo ribadita nella giurisprudenza di questa Corte (oltre le pronunce già sommariamente richiamate da Cass. 6575/13, v. pure: Cass. 18 settembre 2014, n. 19689; Cass. 16 luglio 2014, n. 16273; Cass. 19 febbraio 2014, n. 3931; Cass. 26 luglio 2013, n. 18123; Cass. 30 gennaio 2013, n. 2202), della configurazione della comunione legale come "senza quote" e, quindi, l'impossibilità di ricostruire il coniuge non debitore come proprietario esclusivo di una parte, anche solo ideale, del bene da aggredire esecutivamente.

     

    Tale singolare situazione preclude pure, come già rilevato nella citata Cass. n. 6575/13, la stessa configurabilità di una quota e, quindi, l'applicabilità del meccanismo processuale degli artt. 599 a 601 c.p.c., attesa la singolare peculiarità del tipo di contitolarità, in capo a ciascun coniuge, sul bene staggito.

     

    E deve confermarsi che la soluzione prescelta da Cass. 6575/13 continua ad apparire, finchè almeno non riterrà di intervenire il legislatore, la meno incoerente con il sistema, tutelando - mediante la notificazione al coniuge non debitore del pignoramento (ma non potendosi escludere l'efficacia di un qualsiasi atto ad esso equipollente), poichè anche lui, pur non essendovi formalmente assoggettato, risente direttamente degli effetti dell'espropriazione in concreto posta in essere, con diritti e doveri identici a quelli del coniuge debitore esecutato (per debito suo personale o proprio) - almeno il suo diritto a non vedere uscire dalla comunione legale (effetto inevitabile della vendita, a sua volta ineliminabile nell'attuale regime dell'art. 600 c.p.c. per l'impossibilità di vendere una quota che non esiste, così oltretutto inserendovi un estraneo al rapporto di coniugio) un bene, senza percepire quanto meno il controvalore lordo di esso (salve le regole di attribuzione di cui agli artt. 195 c.c. e ss.), in adeguato contemperamento della tutela dei creditori del coniuge debitore e della natura peculiare della sua contitolarità di diritti sui beni aggredibili.

     

    6.4. Sulla base di questa premessa ed entro tali limiti, già potrebbe concludersi per l'infondatezza dei motivi di ricorso originari, se complessivamente considerati da quest'angolo visuale;

     

    ma ad analoga conclusione si giunge egualmente all'esito di una analitica loro disamina.

     

    7. - A cominciare - infatti - dal primo motivo, del quale la controricorrente invoca l'inammissibilità per non essere stata specificata nell'originario ricorso in opposizione e comunque per essere preclusa al terzo opponente, va rilevato che esso è comunque inammissibile.

     

    E' noto il consolidato principio (Cass. 4 luglio 2014, n. 15367; v.anche Cass. 19 marzo 2007, n. 6361) secondo cui "Affinchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall'altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, quindi, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un'ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere- dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all'adempimento da parte del ricorrente - per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito - dell'onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi".

     

    Orbene, nella specie i ricorrenti, dopo aver individuato il passaggio motivazionale con cui la Corte d'appello di Cagliari negava in radice la stessa prospettabilità di una inesistenza giuridica del pignoramento, per il solo fatto che esso avesse attinto anche la quota del comproprietario non debitore (v. supra, par. 1.1), si limitano a riportare testualmente alcune pagine della comparsa conclusionale e della memoria di replica in appello, omettendo del tutto di indicare quando le specifiche domande ed eccezioni (non analiticamente indicate) siano state introdotte nel giudizio.

     

    Tuttavia, è fin troppo evidente che non può far fede, a tal fine, il contenuto dei predetti atti, aventi funzione meramente illustrativa delle domande ed eccezioni ritualmente proposte nel corso del giudizio medesimo.

     

    Sotto diverso ma concorrente profilo, è poi sintomatico che dall'esame del ricorso - le pretese domande ed eccezioni oggetto di omessa pronuncia, così come identificate dai ricorrenti, in alcun modo siano ricollegabili ai motivi d'appello spiegati dalla S. con l'atto del 7.7.03, non essendovi traccia del contenuto di questi ultimi nel ricorso medesimo; è così di intuitiva evidenza che, dovendo essere dotati i motivi d'appello del carattere di specificità, secondo il disposto dell'art. 342 c.p.c. (quand'anche nel testo applicabile ratione temporis), la loro mancata indicazione nel ricorso per cassazione, in uno con la generica indicazione delle domande ed eccezioni che la Corte d'appello avrebbe pretermesso, non può che comportare la necessità di accedere agli atti processuali al fine di individuare compiutamente i profili identificativi dei primi e valutare quindi la ritualità di queste ultime: ciò che però non è consentito alla Corte, come s'è detto, ove il ricorso non risponda ai requisiti di autosufficienza, come quello degli odierni ricorrenti, almeno riguardo al motivo in esame.

     

    8. - I motivi secondo, terzo e quinto possono essere esaminati congiuntamente, in quanto evidentemente connessi.

     

    8.1. Essi attengono, sotto plurimi ma convergenti profili, al preteso mancato rilievo, da parte della Corte isolana, dei vizi dell'atto di pignoramento in ordine all'erronea identificazione del bene e alla consistenza aggredita, e ancora dei vizi del procedimento in ordine alla partecipazione del comproprietario non debitore e alla divisibilità del cespite, e nella conseguente nullità/inesistenza del pignoramento, sicchè il trasferimento a C.M. dovrebbe dirsi non già meramente inopponibile in parte qua, ma radicalmente nullo e improduttivo di effetti.

     

    8.2. La controricorrente sostiene la preclusione, per la terza opponente, di contestazioni circa vizi della procedura e comunque riproduce, in controricorso, il provvedimento conclusivo con cui il giudice dell'esecuzione ha attribuito anche alla S. la quota del ricavato della vendita corrispondente alla misura del suo diritto sul bene venduto. Quanto al quinto motivo, concorda poi con la corte territoriale sull'inammissibilità della censura, siccome non specificata nell'originario ricorso in opposizione e comunque preclusa al terzo opponente.

     

    8.3. I motivi qui congiuntamente esaminati - in disparte i profili di inammissibilità, risolvendosi essi nella denuncia di pretesi "errores in procedendo" e non parendo neppure in tal caso rispettato il requisito dell'art. 366 c.p.c., n. 6, non essendo dato comprendere, dal suo solo esame, quando tali specifiche questioni siano state introdotte nel giudizio e come ne sia stato investito (in relazione al decisum del tribunale cagliaritano) il giudice d'appello; non senza dire che, comunque, essi si basano su atti e documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio dell'esecuzione, della cui produzione anche in copia i ricorrenti si limitano però a far riserva, "ove occorra" (v. ricorso, p. 33) - sono comunque infondati e vanno disattesi.

     

    Come osservato dalla Corte d'appello (p. 7 della sentenza), il thema decidendum della presente controversia va individuato nell'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. spiegata da S. L., con cui ella chiese dichiararsi la nullità della vendita disposta in favore di C.M., in quanto comproprietaria del bene venduto.

     

    Correttamente, però, la Corte cagliaritana ha escluso che l'opponente fosse legittimato a sollevare, in seno al giudizio ex art. 619 c.p.c., ogni doglianza in ordine alla legittimità della procedura e dei singoli atti che la integrano, richiamando pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. 12 agosto 2000, n. 10810; Cass. 16 febbraio 1998, n. 1627, Cass. 21 agosto 1992, n. 9740; in senso conforme, più recentemente, Cass. 7 aprile 2009, n. 8397).

     

    E poichè i motivi in esame sono integralmente incentrati sui pretesi vizi della procedura, è di tutta evidenza come le censure mosse alla sentenza gravata non siano meritevoli di accoglimento.

     

    9. - Il quarto motivo attiene, come visto (v. supra, par. 1.4), alle condizioni di proponibilità dell'opposizione di terzo all'esecuzione.

     

    Ai sensi dell'art. 619 c.p.c., comma 1, "il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può proporre opposizione con ricorso al giudice dell'esecuzione, prima che sia disposta le vendita o l'assegnazione dei beni". Il successivo art. 620, rubricato "opposizione tardiva", stabilisce che "se in seguito all'opposizione il giudice non sospende la vendita dei beni mobili o se l'opposizione è proposta dopo la vendita stessa, i diritti del terzo si fanno valere sulla somma ricavata".

     

    Anche stavolta la controricorrente deduce l'inammissibilità della censura, siccome non specificata nell'originario ricorso in opposizione e comunque preclusa al terzo opponente.

     

    9.1. In proposito, con la sentenza gravata, dopo aver evidenziato come fatto pacifico che l'immobile per cui è causa venne pignorato in danno di P.C. per l'intero, e che esso fu trasferito a C.M. con decreto del 12.1.96, la Corte cagliaritana ha dichiarato l'improponibilità dell'opposizione della S. in quanto proposta quasi cinque anni dopo, con atto del 67.12.00, e quindi ben oltre il termine di cui all'art. 619 c.p.c., comma 1.

    Nell'iter motivazionale, la Corte d'appello nega l'affermata tempestività dell'opposizione da parte degli odierni ricorrenti, sul loro rilievo dell'applicabilità del disposto dell'art. 620 c.p.c. alla sola esecuzione mobiliare, osservando al contrario che quando l'azione esecutiva colpisce un bene di soggetto diverso dal debitore esecutato, il terzo ha il diritto di proporre l'opposizione ex art. 619 c.p.c., ma solo prima che il bene sia assegnato o venduto;

    qualora reagisca solo in epoca successiva, egli ha la possibilità di rivalersi o sul prezzo ricavato, ovvero di rivendicare il bene nei confronti dell'aggiudicatario, come si evince dal disposto dell'art. 2921 c.c..

    Viene poi riportata la motivazione di Cass. 13 novembre 2012, n. 19761 (che, affrontando funditus il tema in parola, ha affermato il seguente principio di diritto: "pienamente ammissibile è l'azione, quand'anche qualificata opposizione ai sensi dell'art. 619 c.p.c., che il terzo estraneo alla procedura esecutiva immobiliare abbia dispiegato, anche in tempo successivo all'aggiudicazione od al decreto di trasferimento, per fare prevalere il proprio diritto reale immobiliare nei confronti del debitore originario, del creditore procedente e degli eventuali aggiudicatari del bene oggetto del suo diritto: atteggiandosi tale azione, benchè non più idonea ad incidere utilmente sul corso della procedura esecutiva, come rivendicazione, con efficacia di giudicato, del bene immobile pignorato ed aggiudicato nei confronti del debitore o degli eventuali aggiudicatari"), per inferirne come nella specie possa escludersi che la S. avesse proposto una domanda di rivendicazione nei confronti dell'aggiudicataria, neanche evocata in giudizio, "essendosi essa limitata ad affermare la nullità della vendita quale conseguenza dell'assoggettamento a vincolo pignoratizio di un bene del quale ella è comproprietaria, assoggettamento al quale ella, per l'espressa disposizione normativa di cui all'art. 619 c.p.c., così come anche affermato nell'arresto giurisprudenziale sopra riportato, poteva e doveva opporsi prima della vendita e dell'aggiudicazione" (così la sentenza impugnata, p. 13).

    La Corte di merito, quindi, rileva conclusivamente come la circostanza che la S. sia proprietaria della quota di un quarto dell'immobile in discorso (questione che pure accerta) non implica affatto l'inesistenza del pignoramento, come dalla stessa opponente sempre sostenuto, sibbene la mera inopponibilità nei suoi confronti del trasferimento coattivo disposto in favore di C.M., nei confronti della quale le ragioni della stessa S. devono essere ritualmente veicolate, dovendo escludersi, come anticipato, che ciò sia avvenuto nel presente giudizio.

    In proposito, i ricorrenti censurano il ragionamento della Corte isolana, affermando che la domanda della S., avendo come finalità quella di accertare il suo diritto sul bene e di riaverlo per sè (e non già di soddisfarsi sul prezzo), trattandosi di vera e propria rivendicazione, era pienamente proponibile anche dopo la vendita e che la circostanza della mancata evocazione in giudizio dell'aggiudicataria avrebbe dovuto comportare, quale unica conseguenza, l'integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c., non incidendo quindi sulla qualificazione della domanda.

    9.2. La controricorrente argomenta per l'applicazione dell'art. 619 c.p.c. alle sole esecuzioni mobiliari e per la non configurabilità, nella specie, di una azione di rivendicazione.

    9.3. Il motivo è infondato.

     

    La citata Cass. n. 19761/12, i cui argomenti sul punto - che il Collegio condivide integralmente - sono riportati nella sentenza impugnata, e i cui snodi concorrono ad integrare, quindi, la ratio decidendi di quest'ultima, ha nella sostanza affermato che la disciplina di cui all'art. 620 c.p.c., che regola l'opposizione tardiva, si attaglia alla sola espropriazione mobiliare, giacchè i diritti vantati su beni immobili dai terzi estranei all'esecuzione trovano comunque tutela nel complesso delle regole che governano i trasferimenti immobiliari. Ove dunque il terzo, che affermi la titolarità di un diritto reale sul bene immobile pignorato (diritto evidentemente obliterato dal creditore pignorante), abbia spiegato opposizione ex art. 619 c.p.c. in epoca successiva alla vendita, "altro scopo non potrebbe avere l'opponente che porre nel nulla gli atti di disposizione del bene immobile rivendicato e quindi in modo del tutto legittimo (conforme all'esigenza di tutelare il proprio diritto) l'opponente medesimo potrà conseguire l'effetto - ben più ampio rispetto a quello di fare valere i suoi diritti sul prezzo ricavato... - di rivendicare, nei confronti proprio dei soggetti della procedura, il proprio diritto reale immobiliare, con vanificazione della disposizione del bene operata nel corso della procedura esecutiva; e potrà scegliere di farlo invocando un accertamento non meramente incidentale; 6.1.5. nessuna limitazione al diritto di agire a tutela del diritto reale immobiliare del terzo estraneo alla procedura si rinviene infatti dalla disciplina degli artt. 619 e 620 c.p.c.: tali norme precludono soltanto - e del tutto coerentemente con la finalità della procedura esecutiva e delle sue parentesi cognitive - la possibilità di influire sul corso di questa e su alcuni suoi peculiari e specifici atti, quali l'aggiudicazione e la vendita o l'assegnazione, cioè sulla formale sostituzione nella titolarità del bene dell'apparente debitore con un soggetto originariamente estraneo alla procedura; 6.1.6. non vi è però nè modo, nè ragione di impedire al titolare di un diritto reale immobiliare di agire a tutela di esso anche in caso di persistente pendenza della procedura esecutiva, al fine di fare accertare - e, a seconda dei casi, verosimilmente con efficacia di giudicato - l'eventuale prevalenza del suo diritto su quello del debitore originario, a sua volta oggetto del coattivo trasferimento in cui ogni vendita - od assegnazione - si sostanzia" (così il più volte citato precedente di legittimità, in motivazione).

    9.4. Come già evidenziato, la Corte di merito ha escluso potersi riscontrare, nella specie, gli estremi dell'azione di rivendica, in quanto la S. s'è per un verso limitata a predicare la nullità della vendita forzata a cagione dell'assoggettamento a vincolo (anche) della quota di sua proprietà, e dall'altro ha deliberatamente omesso di evocare in giudizio l'aggiudicataria.

    Ora, con orientamento consolidato, la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che "l'interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata, avendo riguardo all'intero contesto dell'atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione letterale nonchè del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, senza essere condizionato al riguardo dalla formula adottata dalla parte stessa" (per tutte, in tal senso, Cass. 26 giugno 2007, n. 14751; più recentemente, con specifico riferimento all'atto di intervento nel processo esecutivo, Cass. 6 maggio 2015, n. 9011).

    In quest'ottica, "nell'indagine diretta all'individuazione e qualificazione della domanda giudiziale, il giudice di merito come di legittimità non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tener presente essenzialmente il contenuto sostanziale della pretesa, desumibile, oltre che dal tenore delle deduzioni svolte nell'atto introduttivo e nei successivi scritti difensivi, anche dallo scopo cui la parte mira con la sua richiesta" (così, Cass. 6 aprile 2006, n. 8107). Tuttavia, "quando venga denunciata, col ricorso per cassazione, la nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 112 c.p.c., assumendosi l'erronea qualificazione della domanda, il giudice di legittimità non deve limitarsi a valutare la sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investita del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda" (così la già citata Cass. 4 luglio 2014, n. 15367; in senso conforme, Cass. 4 aprile 2014, n. 8008).

    9.5. In proposito, col motivo in esame i ricorrenti paiono censurare la sentenza impugnata ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (anche) in relazione all'art. 112 c.p.c., come si ricava dalla rubrica del motivo, lamentando quindi nella sostanza una nullità processuale da erronea qualificazione della domanda da parte del giudice d'appello.

    Orbene, è noto che i criteri identificativi dell'azione di rivendica ex art. 948 c.c. vanno individuati, quanto alla causa petendi, nell'affermato diritto di proprietà, in quanto appartenente alla categoria dei diritti "autodeterminati", individuati, cioè, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto quale rappresentato dal bene che ne forma l'oggetto (ex multis: Cass. 21 novembre 2006, n. 24702; Cass. 13 febbraio 2007, n. 3089; Cass. 5 novembre 2010, n. 22598). E, in effetti, è indubbio come la S. - a prescindere da ogni altra considerazione sul concreto atteggiarsi della sua strategia processuale - abbia sempre affermato di essere comproprietaria del bene in questione, sicchè tale allegazione è certamente sufficiente ad integrare l'elemento della causa petendi della domanda di rivendica.

    9.6. Risulta quindi decisivo esaminare il petitum dell'azione promossa dalla S., atteso che la rei vindicatio ha funzione essenzialmente recuperatoria e presuppone necessariamente che, all'atto della sua formulazione, il convenuto sia nel possesso della cosa (fra le altre, v. Cass. 14 aprile 2005, n. 7777).

    Al riguardo, l'opponente, sin dal ricorso del 6-7.12.00 (il cui esame è consentito alla Corte, quale giudice del fatto processuale - si veda la già citata v. Cass. 4 luglio 2014, n. 15367), ha chiesto dichiararsi "che il fabbricato in (OMISSIS) rientra nella comunione legale tra i coniugi P.C. e S.L.; dichiarare la nullità della vendita 5.10.1995 e di tutti gli atti conseguenti; reintegrare l'esponente nella proprietà e nel possesso della casa".

    Questo essendo il petitum dell'opposizione, sebbene l'ovvia finalità dell'azione ex art. 619 c.p.c. spiegata dopo la vendita forzata, come evidenziato da Cass. n. 19761/12, non possa che essere tesa a vanificare l'effetto della disposizione del bene operata nella procedura esecutiva, del tutto correttamente la Corte di merito ha escluso che la S. avesse inteso introdurre una domanda di rivendica. Infatti, proprio la mancata proposizione di alcuna domanda nei confronti dell'aggiudicataria, neanche evocata in giudizio, è sintomatica di un'azione affatto diversa, tesa cioè ad ottenere una mera declaratoria di illegittimità della vendita (e quindi, potrebbe dirsi, tutta interna alla procedura esecutiva). Tanto è vero che, dal tenore complessivo del ricorso introduttivo e delle conclusioni in particolare, si evince che la chiesta "reintegrazione" transita necessariamente attraverso la previa declaratoria di nullità della vendita stessa, e non già della sua inopponibilità - giacchè inidonea a prevaricare il proprio diritto dominicale - nei confronti di essa opponente.

    9.7. In ogni caso, e conclusivamente sul punto, può qui aggiungersi che - presupponendo l'azione ex art. 948 c.c. che il bene rivendicato sia nel possesso del convenuto - difetta ogni allegazione della S. circa un eventuale possesso del bene in capo a colei che (secondo gli odierni ricorrenti) sarebbe litisconsorte pretermessa, ossia l'aggiudicataria C.M., il che finisce da un lato con il corroborare il ragionamento seguito dal giudice di merito, e dall'altro con l'escludere la necessità che debba ordinarsi l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti, ex art. 102 c.p.c., come pure pretenderebbero anche in questa sede di legittimità i ricorrenti. E ciò tanto più che, nel giudizio di rivendica, la legittimazione passiva spetta a "chiunque di fatto possegga o detenga il bene rivendicato e sia in grado, quindi, di restituirlo" (Cass. 16 giugno 2006, n. 13973).

    10. - Il sesto e il settimo motivo, infine, non sono ammissibili.

    10.1. Sul punto, la controricorrente ritiene nuove le doglianze così prospettate, negando poi avere le controparti azionato i rimedi interni, per non avere mai agito per evizione.

    10.2. Ora, detti motivi attengono a doglianze mosse nella precedente fase di merito dal solo P.C. (come si evince dalla sentenza d'appello, p. 14), in relazione sia ad asserita nullità della vendita per violazione delle norme in tema di espropriazione forzata di beni ricadenti nella comunione legale, sia a pretesa incompatibilità del diritto interno col diritto comunitario.

    E' quindi evidente la relativa carenza di legittimazione attiva anzitutto del P., trattandosi (quanto alla questione concernente la comunione legale) di pretesi vizi che egli avrebbe dovuto autonomamente denunciare ex art. 617 c.p.c. (v. supra, par. 2) ed entro i relativi rigorosi termini decadenziali, nonchè (quanto alla chiesta rimessione alla Corte di Giustizia) di domanda che egli non ha titolo per proporre, afferendo alla posizione sostanziale della propria moglie e ostandovi, quindi, il disposto dell'art. 81 c.p.c..

    10.3. In relazione al capo di sentenza relativo alla comunione legale, sussiste però la carenza di legittimazione attiva anche di S.L., afferendo il motivo in esame, (anche) da lei proposto, a domande che ella non ha mai avanzato nei precedenti gradi, e che - nell'opposta ipotesi - non avrebbe comunque potuto proporre nel giudizio di opposizione di terzo all'esecuzione, non essendo parte del procedimento esecutivo (v. supra, par. 4).

    11. - Infine, la censura alla sentenza d'appello mossa dalla S. in ordine al rigetto dell'istanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea può essere esaminata in uno alla sollecitazione rivolta anche a questa Corte di un rinvio pregiudiziale alla medesima Corte, in cui eventualmente possa risolversi, se non altro in parte, l'ultimo motivo di ricorso.

    11.1. Al riguardo, è noto (tra le ultime: Cass. Sez. Un., ord. 10 settembre 2013, n. 20701) che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità (Corte giust. 21 luglio 2011, Kelly, in CI04/10; 22 giugno 2010, Melki in CI 88 e 189/10): infatti, esso ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell'Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall'evoluzione giurisprudenziale anche della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull'Unione Europea; sicchè il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perchè proveniente da istanza di parte (Cass. 9 luglio 2015, n. 14375; Cass. 16 maggio 2014, n. 10738; Cass., ord. 24 marzo 2014, n. 6862; Cass. 21 giugno 2011, n. 13603).

    D'altra parte (da ultimo, v. Cass. 5 luglio 2013, n. 16886), la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, nell'esercizio del potere di interpretazione di cui all'art. 234 del Trattato istitutivo, non opera come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale.

    Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all'obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità Europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un acte claire che, in ragione dell'esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell'evidenza dell'interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (tra le altre: Cass., Sez. Un., 24 maggio 2007, n. 12067; Cass., ord. 22 ottobre 2007, n. 22103; Cass. 26 marzo 2012, n. 4776; Cass. 29 novembre 2013, n. 26924; Cass. 19 marzo 2015, n. 5514).

    11.2. Ma, in applicazione di tali principi, deve sottolinearsi che integra un acte claire, tale cioè da precludere in radice qualunque anche solo astratta contrarietà alle normative comunitarie o Eurounitarie e la stessa possibilità di rimessione degli atti alla Corte di Giustizia (così assolvendosi all'obbligo di esplicita motivazione sul punto, ribadito di recente da Corte Giust. 21 luglio 2015, Schipani et al., in causa n. 38369/09), l'interpretazione della disciplina nazionale sulla devoluzione della tutela del coniuge in regime di comunione legale - attesa l'invalsa e consolidata qualificazione di questa come "comunione senza quote" (corrispondente anzi ad istituti di matrice germanica e quindi diffusi anche in ambito Europeo o comunque non limitati all'ambito nazionale) e quindi insuscettibile di pignoramento separato o per quote - alla mera sede esecutiva, nel corso della quale, essendovi comunque almeno indirettamente assoggettato perchè coinvolto (a somiglianza di qualunque altro contitolare di diritti sui beni pignorati, che subisce gli effetti dell'espropriazione per il debito di un contitolare pur non essendo egli stesso in alcun modo debitore o responsabile per il debito che gli provoca la perdita della titolarità del bene in natura), egli può avvalersi degli strumenti propri del processo e, a tutto concedere, apparendo idoneo contemperamento tra il suo diritto dominicale e la responsabilità del suo coniuge verso i propri debitori la partecipazione prioritaria alla distribuzione del ricavato della vendita del bene.

    12. - In conclusione, il primo, sesto e settimo motivo sono inammissibili; il secondo, terzo, quarto e quinto motivo sono infondati e vanno quindi respinti.

    Nel suo complesso considerata la fattispecie, può invero concludersi che bene è stata applicata ad essa il seguente principio di diritto:

    per il debito di uno dei coniugi correttamente è sottoposto a pignoramento per l'intero il bene, pure se in parte compreso nella comunione legale con l'altro coniuge, con conseguente esclusione di ogni irritualità o illegittimità degli atti tutti della procedura, fino all'aggiudicazione ed al trasferimento di quello in favore di terzi compresi, nonchè con esclusione della fondatezza della pretesa del debitore esecutato e dell'opponente originaria non solo di caducare tali atti, ma pure di separare di quel bene parti o quote o di conseguire dalla procedura esiti diversi dalla vendita per l'intero, salva la corresponsione al coniuge non debitore, in sede di distribuzione, della metà del ricavato lordo di essa, dovuta in dipendenza dello scioglimento, avutosi sia pure in via eccezionale limitatamente a quel bene, ma per esigenze di giustizia ed all'ano del decreto di trasferimento, della comunione legale in parola.

     

    13. - All'infondatezza del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti, tra loro in solido per l'evidente identità di posizione processuale, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente.

     

    In relazione alla data di proposizione del ricorso per cassazione (successiva al 30 gennaio 2013), deve darsi atto dell'applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

     

    P.Q.M.

     

    La Corte:

     

    - rigetta il ricorso;

     

    - condanna i ricorrenti, tra loro in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, nella qualità in atti ed in pers. del leg. rappr.nte p.t., liquidate in Euro 7.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre maggiorazione per spese generali ed oltre accessori nella misura di legge;

     

    - ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modif. dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

     

    Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 21 gennaio 2016.

     

    Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2016

     
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